sabato 22 aprile 2017

Diva (Jean Jacques Beineix)


Diva (1981) Regia di Jean-Jacques Beineix (1981). Soggetto di Daniel Odier. Sceneggiatura di Jean-Jacques Beineix e Jean Van Hamme. Fotografia: Philippe Rousselot. Musica di Alfredo Catalani, dall'opera "La Wally". Musica per il film di Vladimir Kosma. Interpreti: Frédéric Andréi, Roland Bertin, Richard Bohringer, Gérard Darmon, Chantal Deruaz, Jacques Fabbri, Patrick Floersheim , Thuy An Luu, Jean-Jacques Moreau, Wihelmenia Wiggins Fernandez . Durata: 117 minuti.

Una donna giovane, a piedi scalzi, nel centro di Parigi, inseguita da due sicari spietati, lascia un’audiocassetta nella borsa del motorino di un postino; è il suo ultimo gesto, e pochi secondi dopo la vedremo colpita da un coltello nella schiena, lanciato con grande abilità. La ricerca di quella cassetta, che incastrerebbe il commissario corrotto, occupa gran parte del film e ne costruisce l’ossatura; ma è una trama risibile, poco più di un pretesto per una serie di invenzioni di cinema sul cinema, peraltro serissime e girate con ottima mano.

Quando “Diva” uscì, nel 1981, si gridò al miracolo: il film ebbe un buon successo di pubblico, piacque molto, e ci si aspettavano grandi cose dal suo autore, l’allora giovane Jean Jacques Beineix. Grandi cose che poi non vennero, ormai sono passati più di trent'anni e possiamo dirlo – con molto dispiacere, perché “Diva” è ancora oggi un film simpatico e piacevole, e anche piuttosto fuori del comune. Rivedendolo, mi tornava spesso alla mente un altro film francese piccolo e simpatico, e un po’ stralunato: “Zazie nel metro” di Louis Malle, girato nel 1960 e tratto dal libro di Queneau. Il film di Malle ha una cosa in comune con “Diva”: visto oggi appare molto datato, molto legato al momento in cui fu girato. Gli oggetti, i vestiti, i colori, il modo di parlare, la città, tutto quanto rappresenta con molta evidenza un mondo che non c’è più, e anche questo è un motivo d'interesse perché testimonia quanto siano effimere le mode.
Per esempio, l’abitazione del postino: che è un ragazzo svelto e piacevole, timidissimo. Il ragazzo abita in un loft, un enorme spazio che ha riempito di impianti stereo, di dischi e di cassette: e già parlare di stereo e di audiocassette fa impressione. Quando è uscito il film, non c’erano ancora nemmeno i cd: erano appena nati, pochissimi li avevano visti o avuti fra le mani. Tutto il loft meriterebbe una nota a parte, e direi che il suo arredamento ha poco da invidiare alla casa di Alex, quello di “Arancia meccanica” (un complimento a chi ne ha inventato la scenografia).
La cosa curiosa di questo film, quello che lo rende davvero diverso da tutti gli altri, è che al suo centro (thriller a parte) c’è una cantante lirica, della quale il ragazzo è un fan molto acceso. Siccome la cantante, una nera bellissima e fascinosa, non ha mai voluto incidere dischi, le sue registrazioni sono molto ambite: e anche questo è un particolare che oggi può far sorridere. Dire “cantante nera e fascinosa, che fa solo recitals”, in quel 1980, era un riferimento chiaro a Jessye Norman, voce sontuosa e meravigliosa che ho avuto la fortuna di ascoltare in concerto, proprio in quegli stessi anni. Ma la vera Jessye Norman non era scritturabile da Beineix, e per due motivi: il costo del suo ingaggio (le star dell’opera viaggiano su cachet astronomici, da sempre) e il fatto che la Norman non ha il fisico da top model della cantante che vediamo nel film. La “Diva” del film si chiama Wilhelmenia Wiggins-Fernandez, ed è stata una buona cantante senza mai raggiungere livelli di grande prestigio; somiglia molto a Jessye Norman, che però è una donna di taglia diversa – una dimensione fisica che le ha creato diversi imbarazzi nella sua vita, e che per lungo tempo l’ha tenuta lontana dal palcoscenico (è per questo che dava solo concerti), anche se – in fin dei conti – donne come Jessye Norman se ne incontrano spesso, e anche nelle foto dei suoi dischi figura sempre bene.
L’altra figura femminile del film è una piccola e vispa franco-vietnamita, molto graziosa, che si chiama Thuy Ann Luu. Una presenza interessante, peccato che poi nessuno al cinema l’abbia più chiamata: divertente la scena in cui lei ruba dei 33 giri in un negozio di dischi, nascondendoli in un’enorme cartella da disegno. Il commesso, che sospetta, gliela fa aprire: ma dentro ci sono delle sue foto in cui è nuda, il commesso è imbarazzato. “Adesso posso rivestirmi?” chiede la ragazza, fingendo di essere molto seccata; e se ne va via facendola franca. In un’altra scena, giocherà a mondo saltellando su una pin up dipinta sul pavimento del loft; ed è una presenza piacevole ma un po’ improbabile, la prova vivente che questo film è poco più del susseguirsi di tutta una serie di fantasie da fumetto (vi posso assicurare che se fate ascoltate l’opera ad una ragazza, come fa il protagonista, la risposta non sarà affatto entusiastica: ai miei bei tempi ci ho provato un paio di volte, ma ho smesso subito). Rimane la sensazione di un thriller adolescenziale, con dettagli veramente infantili (le fantasie sull’impianto stereo, le Rolls Royce e le Citroen bianche anni ’30, gli inseguimenti col motorino che scappa dalle auto della polizia senza farsi raggiungere, il killer sadico tolto di peso dai fumetti, le donnine sexy e le dive irraggiungibili). Ha una sua freschezza innegabile, e un talento certo per la macchina da presa, ma dietro non c’era molto di più.
L’aria d’opera che imperversa per tutto il film è “Ebben ne andrò lontana”, dalla Wally di Alfredo Catalani (1892). Catalani è lucchese come Puccini, ed era di 4 anni più anziano; l’aria in effetti è di quelle che colpiscono, e imperversa ancora oggi qua e là, spot pubblicitari compresi ovviamente. Però con la vera Jessye Norman, e non con Wilhelmenia Fernandez, forse avremmo potuto ascoltare anche qualcosa di Puccini o di Schubert, e sarebbe certo stato meglio.


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