lunedì 27 febbraio 2017

Primo amore (Mario Del Monaco)


 
Primo amore (1978) Regia di Dino Risi. Scritto da Ruggero Maccari e Dino Risi. Fotografia di Tonino Delli Colli. Musiche originali di Riz Ortolani. Interpreti: Ugo Tognazzi, Ornella Muti, Mario Del Monaco, Caterina Boratto, Riccardo Billi. Durata 118 minuti.

In "Primo amore" di Dino Risi, girato nel 1978, troviamo Ugo Tognazzi nelle vesti di un artista di varietà ormai un po' anziano, ma non proprio vecchio e non così male in arnese, che chiede di entrare tra i ricoverati di una casa di cura per anziani artisti di varietà. Si trova così ad essere il più giovane, e un po' ne approfitta suscitando le ire del direttore dell'ospizio. Insomma, c'è qualche somiglianza con "Qualcuno volò sul nido del cuculo" di Milos Forman (uscito solo tre anni prima, nel '75), ma qui la storia raccontata è molto meno drammatica: scopriremo presto che Tognazzi non è a corto di soldi, e anzi aspetta un pagamento importante che però tarda ad arrivare. Per questo motivo ha scelto di chiedere una stanza nell'ospizio, è in attesa dell'assegno; che arriverà, ma non si sa bene quando. Poi l'assegno arriva; Tognazzi esce dal ricovero e con i soldi prova ad allestire uno spettacolo, protagonista una ragazza da lui scoperta (Ornella Muti), molto giovane, della quale si innamora per davvero. E' questo il senso del titolo del film: non il primo amore in assoluto, che anzi di donne il protagonista ne ha avute tante, ma il primo vero innamoramento. Ormai però è tardi, gli impresari sono interessati (anche loro) alla ragazza e non al vecchio artista di varietà. Il finale è mesto, ma Tognazzi trova comunque modo di farci sorridere.

La sorpresa, per un appassionato d'opera, è quella di trovarsi davanti a Mario Del Monaco, in un’ottima prova di attore caratterista. Del Monaco non è uno dei ricoverati, come si potrebbe pensare scorrendo la locandina, ma il militaresco e severissimo direttore della casa di riposo. In gran forma, viene da dire, e perfetto per la parte: i suoi “duelli” con Tognazzi sono la cosa migliore del film, che comincia bene ma poi si perde un po’ per strada, ed è un peccato. Nel cast ci sono anche Ornella Muti, molto giovane (qui aveva ventitrè anni), Caterina Boratto (diva degli anni '50, che recitò con Beniamino Gigli e Tito Schipa, poi con Fellini), e molti altri attori che sono stati davvero divi del varietà, e che qui si divertono a rifare se stessi. Non si ascoltano arie d'opera, le musiche per il film (non memorabili) sono di Riz Ortolani; Del Monaco non canta ma recita, è una prova di attore molto ben riuscita ed è davvero un peccato che non abbia più girato nient'altro.
Mario Del Monaco nacque nel 1915, e morì nel 1982: “Primo amore” è dunque una delle sue ultime apparizioni in pubblico.

 

sabato 25 febbraio 2017

Anonimo veneziano


 
Anonimo veneziano (1970). Regia di Enrico Maria Salerno. Scritto da Giuseppe Berto e EM Salerno. Fotografia di Marcello Gatti. Musiche di Benedetto e Alessandro Marcello e di Beethoven. Musiche per il film di Stelvio Cipriani. Interpreti: Florinda Bolkan (voce di Maria Pia Di Meo), Tony Musante (voce di Sergio Graziani), Toti Dal Monte (voce di Lydia Simoneschi), Sandro Grinfan, Brizio Montinaro, Giuseppe Bella. Durata: 1h30'
 
“Anonimo veneziano”, un film che ebbe enorme successo di pubblico alla sua uscita nel 1970, è contemporaneo dell'altrettanto famoso (allora) "Love story", con il quale condivide alcuni temi di fondo. E' la storia di un oboista e direttore d’orchestra, che sta registrando un concerto per oboe di Benedetto Marcello. Mi sono subito chiesto: sarebbe ancora possibile, oggi, un soggetto come questo? Direi proprio di no, nessun produttore finanzierebbe un film o una fiction tv dove il protagonista suona l’oboe in un’orchestra specializzata nel repertorio del Settecento. Il soggetto verrebbe completamente riscritto e stravolto, oppure immediatamente cassato. Insomma, per l’oboista che aveva il sogno di diventare come Karajan oggi come oggi, con i produttori e registi che ci ritroviamo, vedrei una sola destinazione possibile: il cestino della carta straccia, magari passando per un tritarifiuti. In alternativa, l'oboista verrebbe trasformato in un rapper.
Invece nel 1970 tutto questo era ancora possibile, l’oboista piacque molto, e alla fine del film si ascolta per davvero il “Largo” dal Concerto in do minore di Benedetto Marcello, per intero, senza arrangiamenti; anche se va detto subito che l'attribuzione a Benedetto Marcello è dubbia, c'è chi dice che in realtà sia di Alessandro Marcello (i due erano fratelli), e ne esiste anche una trascrizione ad opera di Johann Sebastian Bach. Nel film viene invece detto che l'autore è ignoto, appunto un "anonimo" operante a Venezia nel Settecento.
Il film racconta l’incontro tra il musicista e la moglie da cui è separato, e ha un finale tragico perché lui è gravemente ammalato; ha dei dialoghi irritanti, da fotoromanzo di quart’ordine, ma per il resto, soprattutto per le immagini, è ancora molto bello e godibile. A un certo punto mi sono trovato a pensare che se fosse stato in inglese o in tedesco, magari coi sottotitoli, in modo da non capire perfettamente i dialoghi, probabilmente lo avrei considerato un capolavoro; ma così non è, anche per via della scelta del protagonista maschile. La protagonista femminile è Florinda Bolkan, ed è un’ottima scelta; ma l’oboista di Tony Musante, visto da oggi, assomiglia in modo incredibile a Peter Falk e quindi diventa difficile prendere troppo sul serio tutta la vicenda. Oltretutto, l’impermeabile è identico; in alcune sequenze del film l’impressione di essere finiti per sbaglio dentro un episodio del tenente Colombo diventa fortissima (i telefilm del tenente Colombo, va detto, arriveranno solo qualche anno dopo, verso la fine degli anni Settanta). Ma vera protagonista del film è la città di Venezia, con riprese splendide, così bella da far venire nostalgia perché in seguito Venezia è molto cambiata. Insomma, nel film Venezia viene presentata a parole come città morente e decadente, ma la si vede invece ben viva e abitata, con gente normale, veneziani veri e non turisti o ricconi, ancora con i bambini che giocano per strada. Perfino l’acqua dei canali non è mai verde, e questa è davvero una sorpresa. Chissà come avranno fatto, si chiede: ma forse nel 1970 Venezia era ancora così.
Dal punto di vista operistico, hanno un interesse notevole le sequenze girate all’interno della Fenice: il teatro è vuoto, ma se ne vede una panoramica girata in modo magistrale. Per chi si fosse distratto, ricordo che questa sala, quella che si vede nel film, è stata in seguito completamente distrutta da un incendio; quella che esiste oggi è stata perfettamente ricostruita, ma questa di “Anonimo Veneziano” è la stessa Fenice in cui fu girato “Senso” di Visconti. Nel finale, il Concerto di Benedetto / Alessandro Marcello viene eseguito nella chiesa di San Vitale, “San Vidàl”, anch’essa ripresa in modo magnifico e con ampie panoramiche e dettagli sui musicisti, tutti giovani e simpatici. Nel corso del film si ascoltano anche frammenti della sesta sinfonia di Beethoven, oltre a canzoni e alle musiche scritte per il film da Stelvio Cipriani.
Una sorpresa, qualcosa più di una curiosità, è la presenza nel cast di Toti Dal Monte, grandissima soprano degli anni trenta e quaranta: è l’anziana padrona di casa che affitta l’appartamento ai due sposi, in uno dei tanti flashback che percorrono il film.
Il regista Enrico Maria Salerno è stato per più di trent'anni un attore molto popolare, oltre che molto bravo; attivo anche come doppiatore, è stato la voce di Clint Eastwood nei film di Sergio Leone e quella di Gesù nel "Vangelo secondo Matteo" di Pasolini, e molto altro ancora. Il soggetto di "Anonimo veneziano" è dello scrittore Giuseppe Berto, che ne ha tratto anche una versione per il teatro. Nel progetto originale, il ruolo di Tony Musante doveva essere affidato proprio ad Enrico Maria Salerno, che poi in fase di produzione passò dietro la macchina da presa.
La concorrenza con "Love story" (dove è la donna a essere gravemente ammalata) fu molto forte non solo al botteghino dei cinema ma anche in sede legale, perché le musiche di Cipriani erano molto simili a quelle di Francis Lai, autore delle musiche per il film americano.
Il brano diretto dal protagonista in chiusura, che nel film viene chiamato "Concerto in Do minore per oboe, archi e basso continuo di Benedetto Marcello", in realtà è il Concerto in Re minore per oboe, archi e basso continuo di Alessandro Marcello, fratello più vecchio ma meno famoso di Benedetto (il quale tuttavia fece una trascrizione di tale concerto, come pure ne fece una – per clavicembalo – Johann Sebastian Bach). In particolare, si tratta del secondo di tre movimenti: l'Adagio. Divenuto celeberrimo anche grazie a questo film, è qui trascritto e diretto dal jazzista Giorgio Gaslini.
 
Oltre alla Fenice, e alle calli e canali di Venezia, sempre wikipedia segnala altri luoghi dove è stato girato "Anonimo veneziano":
Alcune scene hanno come scenario l'originale architettura della Casa dei Tre Oci; quella del pranzo è stata girata nella famosa Locanda Montin, in Dorsoduro 1147. La scena in cui Enrico compra un vestito per Valeria è girata all'interno della Tessitura Luigi Bevilacqua.
(qui sotto, una serie di immagini della chiesa di San Vidàl, sempre prese dal film)

 


martedì 21 febbraio 2017

Giovanna d'Arco al rogo ( II )

Giovanna d'Arco al rogo (1954). Regia di Roberto Rossellini. Tratto dall'oratorio di Arthur Honegger, su testo di Paul Claudel (versione in italiano di Emidio Mucci). Fotografia di Gabor Pogany (colore). Scene di C.M.Cristini. Coreografia di Bianca Gallizia. Musica di Arthur Honegger. Interpreti: Ingrid Bergman (Giovanna), Tullio Carminati (frate Domenico), Giacinto Prandelli, Saturno Meletti, Plinio Clabassi, Piero De Palma, Augusto Romani, Agnese Dubbini, Aldo Terrosi, Silvio Santarelli, Gerardo Gaudioso, Nino Tarallo, Luigi Paolillo. Solo in voce: Miriam Pirazzini, Marcella Pobbe, Pina Esca, Giovanni Avolanti. Orchestra, cori e balletto del San Carlo di Napoli. Direttore d'orchestra Gianandrea Gavazzeni. Maestro sostituto Angelo Spagnolo. Durata: 76 minuti
 
Si comincia con Giovanna che è in cielo e dialoga con frate Domenico (san Domenico): è il ricordo del rogo, cioè il passato, o forse il rogo deve ancora venire? "Sono belve e non uomini di Dio coloro che ti hanno giudicato", dice frate Domenico. Insieme ripercorrono le vicende del processo, così come le ha immaginate Paul Claudel: la Tigre si rifiuta di giudicare Giovanna, la Volpe si dà malata, il Serpente mostra la sua inadeguatezza; allora si fa avanti il Maiale (Porcus) e sarà lui a presiedere il processo; è allegro, e parla in latino. I giurati sono delle pecore, l'asino sarà cancelliere. E' una scena che a noi posteri può ricordare l'inizio della Lulu di Alban Berg, i personaggi presentati come animali; qui Porcus è il tenore Giacinto Prandelli, che in teatro ebbe un'ottima carriera con ruoli di primo piano in Verdi e Puccini, ma che probabilmente si era affezionato al ruolo perché lo ha eseguito in tutte le rappresentazioni italiane di quegli anni. Dal punto di vista musicale, Honegger mette in queste scene cori barbarici (il popolo, la giuria, la barbarie generale di questo processo), una breve citazione del dies irae di Tommaso da Celano, ricordi di Stravinskij (Sinfonia di salmi, i cori di Oedipus Rex...), direi anche Mussorgskij.
Frate Domenico dice a Giovanna che i sapienti della Sorbona che l'hanno condannata (Claudel li elenca uno per uno) credono fermamente nel diavolo, ma non vogliono prestar fede a Dio; il diavolo per loro è una realtà e gli angeli sono una stoltezza, "secondo loro il diavolo che detestavi ti ha aiutato e gli angeli che invocavi non hanno potuto nulla; e così essi come delinquente doppiamente ti condannano".
Al minuto 25, ancora frate Domenico usa la metafora delle carte da gioco per indicare il destino, o forse la volontà divina: "il gioco delle carte che ti ha portato qui, da pastorella che eri". Segue un balletto o pantomima, con le carte e i tarocchi, i re e i guerrieri e accanto a loro quattro regine: Stoltezza, Boria, Avarizia, Lussuria, e poi la Morte. I re e i guerrieri sono quelli storici, quelli che combatterono con Giovanna o contro di lei.
Al minuto 32 in cielo si sentono le campane, "de profundis clamavit...". Le campane (una scura e una chiara), poi le voci, evocano il ricordo dell'infanzia di Giovanna, e poi il suo percorso con il Re.
C'è la festa dei contadini, poi un frate domenicano li rimprovera e li esorta a pregare per il Re che va ad essere incoronato a Reims; poi il frate prega con loro. Una voce fuori campo dice che arriva il re di Francia, sta andando a Reims; il re passa da lontano, con un corteo di cavalli bianchi.
"Sono io che ho fatto questo" dice Giovanna.
"E' Dio che ha fatto questo" la corregge frate Domenico.
"E' Dio che ha fatto questo, insieme a Giovanna; le voci non mi avevano ingannata", conclude Giovanna.
Al minuto 45, si invoca l'unità della Francia, contro l'occupazione inglese. "Per un re di carne tu hai versato il tuo sangue virginale" dice frate Domenico, rimproverando Giovanna.
Giovanna in cielo riascolta le Voci che aveva udito da pastorella; fa l'elogio della sua Normandia, della Lorena, parla della sua spada donata a lei da san Michele.
"Io vado, andrò, sono andata", dice Giovanna; tempo e spazio in un anello senza fine. Il rogo è nel passato, o nel futuro? O forse nel presente?
Al minuto 56, sempre Giovanna: "la spada di San Michele non si chiama odio, si chiama amore"
A 1h00 Giovanna lascia frate Domenico in cielo, e scende; si ode una voce di soprano dall'alto. Giovanna è pronta a subire ancora il supplizio del rogo: "era un ricordo, è il presente, sarà, è stato, è qui... ", ma Dio è più forte di tutto.
Frate Domenico adesso non c'è più, Giovanna è sul rogo, sola e abbandonata; ma la Voce dal cielo l'aiuta, "Giovanna tu non sei sola"; ma lei non vuole morire, ha paura (come Cristo in croce). Le offrono di abiurare, ma lei rifiuta; viene acceso il rogo. Giovanna tornerà in cielo: l'amore è il più forte, Dio è il più forte.
L'immagine conclusiva è il cartello "The end", in inglese.
Paul Claudel (francese, 1868-1955) si convertì al cattolicesimo da adulto; iniziò come poeta simbolista, poi l'ispirazione cattolica prevalse nelle sue opere. "Giovanna d'Arco" è del 1939, quindi Honegger la mette in musica subito dopo la sua pubblicazione; altre opere importanti di Claudel sono "L'annuncio a Maria" (1912) e "Le soulier de satin" (La scarpetta di raso), dramma storico dal quale Manoel de Oliveira ha tratto un film molto bello (ne ho scritto per esteso sul blog giulianocinema)
Ingrid Bergman (1915-1982), conosce Rossellini nel 1949, e insieme girano il film "Stromboli"; la loro relazione fece scandalo, soprattutto in America dove la Bergman era una delle dive più famose e celebrate. Nel 1950 nasce il loro primo figlio, Roberto jr; nel 1952 nascono le gemelle Isotta e Isabella; la tournée per la "Giovanna d'Arco" di Honegger è quindi di poco successiva alla loro nascita.
"Giovanna d'Arco al rogo" in questo allestimento fu trasmessa per radio in diretta il 5 dicembre 1953 dal San Carlo di Napoli, ed è disponibile nelle teche Rai; su Rai3 nel 2013 questa registrazione fu montata su immagini del film di Dreyer. Direi che la "Giovanna d'Arco" di Carl Theodor Dreyer (film del 1927) non ha molto in comune con Claudel, ma è sempre un capolavoro da vedere e rivedere; i primi piani di Dreyer fanno però pensare che è molto probabile che il personaggio di Porcus venga dai volti degli inquisitori di Dreyer, volti in stile Trump-Salvini-LePen, se mi si permette il paragone con l'oggi.

lunedì 20 febbraio 2017

Giovanna d'Arco al rogo ( I )

Giovanna d'Arco al rogo (1954). Regia di Roberto Rossellini. Tratto dall'oratorio di Arthur Honegger, su testo di Paul Claudel (versione in italiano di Emidio Mucci). Fotografia di Gabor Pogany (colore). Scene di C.M.Cristini. Coreografia di Bianca Gallizia. Musica di Arthur Honegger. Interpreti: Ingrid Bergman (Giovanna), Tullio Carminati (frate Domenico), Giacinto Prandelli, Saturno Meletti, Plinio Clabassi, Piero De Palma, Augusto Romani, Agnese Dubbini, Aldo Terrosi, Silvio Santarelli, Gerardo Gaudioso, Nino Tarallo, Luigi Paolillo. Solo in voce: Miriam Pirazzini, Marcella Pobbe, Pina Esca, Giovanni Avolanti. Orchestra, cori e balletto del San Carlo di Napoli. Direttore d'orchestra Gianandrea Gavazzeni. Maestro sostituto Angelo Spagnolo. Durata: 76 minuti

Arthur Honegger (1892-1955), svizzero, è un compositore fra i più importanti del Novecento. Autore di musica sinfonica, da camera, operistica; ha collaborato con Cocteau (l'opera "Antigone", 1927), con Paul Valéry ("Amphion", 1931) e molti altri ancora. Il suo brano più famoso, anche per motivi di curiosità musicali, è probabilmente "Pacific 231": scritto nel 1923, è un esercizio di virtuosismo compositivo dove l'orchestra sinfonica imita in maniera impressionante l'avviarsi di una locomotiva a vapore. Honegger nasce come compositore quando sono in piena attività Debussy, Stravinskij, Schoenberg; ha molte affinità con Hindemith, fece parte del "gruppo dei Sei" insieme a Milhaud, Auric, Poulenc, Durey e Tailleferre. Fu attivo anche nel cinema: Honegger scrisse le musiche per "Napoleon" di Abel Gance (ma Francis Ford Coppola, quando riportò questo film nelle sale cinematografiche, le sostituì con una colonna sonora scritta da suo padre Carmine Coppola, che suonò nell'orchestra NBC con Toscanini).
"Jeanne d'Arc au bûcher", oratorio drammatico su testo di Paul Claudel, è del 1938. La prima assoluta è a Basilea, con Ida Rubinstein voce recitante e Charles Munch come direttore d'orchestra; ebbe successo e seguirono molte repliche di alto livello, sempre con un cast importante. La prima italiana è alla Scala nel 1947: dirige lo stesso Honegger, con Sarah Ferrati, Salvo Randone, e il tenore Giacinto Prandelli che sarà sempre l'interprete italiano di Porcus (il giudice nel processo a Giovanna, secondo la lettura di Claudel) negli allestimenti italiani di quel periodo. Nel 1948 "Giovanna d'Arco al rogo" arriva all'Opera di Roma, ancora con Honegger a dirigere. La parte di Giovanna d'Arco (voce recitante, non canto) piace, e attira molte altre grandi attrici; Ingrid Bergman debutta nel ruolo a Parigi, nel 1953. Questo allestimento viene poi portato alla Scala nel 1954, sempre con la Bergman, direttore d'orchestra Gianandrea Gavazzeni con Memo Benassi nella parte di frate Domenico, e con il mezzosoprano Cloe Elmo; arriva a Napoli qualche mese dopo ed è con i complessi del San Carlo di Napoli che Roberto Rossellini realizzerà questo film. "Jeanne d'Arc au bûcher" rimane nel repertorio sinfonico e operistico, ed è ancora oggi eseguita; da noi avrà un'altra versione filmata, stavolta per la tv: alla Rai nel 1960 con regia di Vittorio Gassman, protagonista Olga Villi, direttore d'orchestra Franco Capuana.
"Giovanna d'Arco al rogo" ha bella musica ma non è probabilmente il migliore punto di partenza per capire Honegger, forse sarebbe meglio cominciare dalle sinfonie o magari proprio da "Pacific 231". La dizione scelta da Honegger per la sua "Giovanna d'Arco" sarebbe "oratorio", ma io direi piuttosto melologo, cioè "testo letterario recitato su accompagnamento musicale" come spiega bene la Garzantina. Esempi molto alti e riusciti di melologo sono, per esempio, "Fidelio" di Beethoven e "Il franco cacciatore" di Carl Maria von Weber. Sono sempre formule piuttosto ibride, il canto e la parte recitata si fondono e si separano, ci sono arie, recitativi accompagnati, parti corali e parti sinfoniche; in particolare, è sicuramente un melologo tutta la scena nel carcere dal "Fidelio". Il testo originale è di Paul Claudel, in francese; la versione italiana è di Emidio Mucci.
All'inizio del film, dai bei colori caldi e con le immagini curate da Gabor Pogany (uno dei più grandi fra i tanti ottimi direttori della fotografia di quegli anni), già fin dai titoli di testa (le pagine di un libro antico) vengono subito messe le cose in chiaro: «Un film di Roberto Rossellini.» Solo dopo due o tre pagine arrivano i nomi di Honegger e di Claudel: il film è di Rossellini, gli altri vengono dopo.
Non appena cominciano le immagini sorge spontanea la domanda: è cinema o una ripresa in teatro? Io direi che siamo già dalle parti del Rossellini degli anni 60 e 70, un anticipo di ciò che saranno "La presa di potere di Luigi XIV" gli "Atti degli Apostoli", il "Socrate" e il "Blaise Pascal"; nella parte visiva troviamo echi del cinema di prima del sonoro, il prologo in cielo dal Faust di Murnau, il Faust precedente di Méliès, Eisenstein e Aleksander Nevskij, a tratti perfino le composizioni coreografiche di Busby Berkeley. Su tutto domina però l'impianto teatrale, e direi che è un'ottima scelta perché sembra davvero di essere a due passi dagli attori. Si tratta di una versione molto fedele al testo originale, può anche non piacere ai non appassionati d’opera proprio perché assomiglia più ad una ripresa in teatro che a un film, ma si tratta comunque di un ottimo lavoro da parte di Rossellini. Detto en passant, a me piace molto il Rossellini "didattico", sia come realizzazione che come progetto di cinema e televisione, e ho imparato molto da questi suoi film sui quali una certa parte della critica tende un po' troppo a distrarsi e a minimizzare.
Ingrid Bergman, all’epoca compagna di vita di Rossellini, recita in un italiano molto bello; ogni tanto salta fuori l'accento svedese che a me ricorda il tenore Jussi Björling, o magari (per gli appassionati di calcio) Nils Liedholm. Ingrid, nata nel 1915, era prossima ai quarant'anni e aveva già avuto tre figli da Rossellini; molto intensa nei primi piani, bellissima come sempre, con i capelli corti come nel film tratto da Hemingway ma neri e lisci, indossa un saio per quasi tutta la durata del film.
La storia di Giovanna d'Arco, a livello mio personale, è una vicenda che non mi ha mai appassionato: che cosa c'entra Dio con le guerre in Europa? Ma forse oggi Giovanna d'Arco torna attuale, con i nazionalismi e le divisioni fra i popoli sempre più risorgenti. Sempre a livello mio personale, sono molti i miei dubbi sia sulla musica di Honegger (ma solo per "Giovanna d'Arco al rogo", non per le altre sue composizioni) che sull'allestimento; comunque sia questo film rimane un'ottima cosa, da conoscere, e che fa rimpiangere i tempi in cui era possibile tutto questo, cioè trasmettere cultura e conoscenza tramite il cinema. Oggi un film così non verrebbe girato, e se fosse possibile girarlo finirebbe in qualche "nicchia" (secondo il gergo orribile dei pubblicitari, padroni da anni dei mass media) e lì finirebbe i suoi giorni.

(continua)

giovedì 16 febbraio 2017

Luciano Pavarotti

Luciano Pavarotti (1935-2007), tenore splendido, non ha certo bisogno di presentazioni; come attore ha girato un film solo, intitolato “Yes Giorgio”. Di Pavarotti abbiamo per fortuna molte registrazioni di opere complete, concerti, interviste, e questa è senza dubbio una grande fortuna. A “Yes, Giorgio” avevo dedicato un post su un blog precedente; lo riporto qui così com’era, un po’ per mia comodità e un po’ per pigrizia, insieme alla scheda degli interpreti e registi. E' un film completamente dimenticato, non passa nemmeno più sui canali televisivi, difficile rivederlo...
Yes, Giorgio (1982) Regia di Franklin J. Schaffner. Sceneggiatura di Anne Piper e Norman Steinberg. Fotografia: Fred J. Koenekamp. Musica di: Verdi, Rossini, Donizetti, Ponchielli, Leoncavallo, Puccini, Schubert. Musiche originali per il film di Michael J. Lewis. Interpreti: Luciano Pavarotti, Kathryn Harrold, Eddie Albert, Paolo Baroni, James Hong, Beulah Quo, Norman Steinberg, Karen Kondazian (110 minuti)
Luciano Pavarotti ha girato un film da protagonista, come attore. E' successo nel 1982, la cosa può far sorridere e in effetti il film ce lo siamo già dimenticato tutti; ma Pavarotti aveva come suo modello un altro grandissimo tenore: Beniamino Gigli. Come Pavarotti, anche Gigli non sapeva recitare ma di film ne ha fatti parecchi e nessuno memorabile, a parte la simpatia e la bonomia dell'uomo. Di quei film degli anni ’30 e ’40 rimane, per gli appassionati d'opera, poco più della curiosità di vedere muoversi e parlare uno dei più grandi tenori di tutti i tempi. Per Pavarotti le cose sono andate diversamente: ai tempi di Gigli non c'era la tv, che oggi è onnipresente, ed era ancora complicato anche registrare i dischi; filmare un'opera sul palcoscenico, mentre si recita, era cosa pressoché impossibile negli anni '30 e '40 mentre è oggi normalissima. Ma Pavarotti ci teneva, e certamente qualcuno ha pensato che poteva essere un affare: proviamoci, chissà mai che funzioni... Le cose erano state fatte per bene, in quel 1982: regista Franklin J. Schaffner, quello di "Papillon", di "Patton generale d'acciaio", del "Pianeta delle scimmie"; protagonista femminile una cantante molto bella e molto giovane della quale si è però persa notizia, Kathryn Harrold; e uno stuolo di buoni comprimari. Io l'ho visto in anni lontani e vi posso dire che Pavarotti interpreta la parte di un tenore italiano che si chiama Giorgio - il resto penso che sia facile immaginarlo.
 

Parlare di Pavarotti al passato mi fa impressione. E' stato grazie a Pavarotti, e a una sua incisione dal "Guglielmo Tell" di Rossini (quella del 1970, la grande scena di Arnoldo), che ho scoperto definitivamente che il mondo dell'opera lirica meritava di essere esplorato. Ho avuto la fortuna (e la perseveranza, perché trovare i biglietti non era mica facile) di vederlo e ascoltarlo diverse volte, a partire da una Tosca del 1980, alla Scala (io in loggione, lui sul palcoscenico). Per questo, prendendo come scusa "Yes Giorgio", mi permetto di dire qualche parola di ricordo. Una delle prime cose che si imparano, con l'opera lirica, è di guardare le date di registrazione: sul retro dei dischi di solito ci sono, magari scritte in piccolo. La Callas, per esempio, è grandissima dal 1948 al 1956: un arco di tempo veramente breve. Dopo, per varie ragioni, comincia l'usura della voce; e il ritiro dalle scene giungerà presto. Con Pavarotti va molto meglio: per almeno vent'anni, dal debutto del 1961, la sua voce è meravigliosa, e spesso anche miracolosa. Perciò, il Pavarotti degli anni '60 è tutto di qualità altissima; quello degli anni '70 è quasi tutto di qualità altissima. Dopo il 1980, quando Lucianone ha alle spalle più di vent'anni di carriera, comincia a venir fuori qualche ruga. Dagli anni '90 in poi, il tenore modenese comincia con le iniziative che lo renderanno celebre anche al di fuori dell'opera: ma su queste cose anche chi non capisce niente di opera lirica può arrangiarsi da solo. Pavarotti non è stato famoso per caso. La sua voce è rimasta sempre bella, anche a settant'anni: ma provate a paragonare i faticosi "Vincerò"che avete ascoltato in questi giorni alla tv con le prodigiose registrazioni di quarant'anni fa, e poi sappiatemi dire. Non è un caso che, stando a quello che hanno riportato i giornali, Pavarotti abbia dettato come sue ultime parole "Ricordatemi per quello che ho fatto come tenore d'opera": è lì la sua vera grandezza, e non nei concertini con questo e quello.
 

PS: Ogni volta che ne parlo, mi rendo conto che molti non lo sanno: "Vincerò" non è una canzone. E' un momento dalla "Turandot" di Giacomo Puccini, 1926. Il soggetto è tratto da una fiaba di Carlo Gozzi, commediografo veneziano del '700, e parla di una terribile principessa cinese che, a causa di un giuramento, non voleva sposarsi; ma l'Imperatore suo padre insiste per garantire la sopravvivenza della stirpe, e allora lei accetta ma ad una condizione, che è quella di sposare l'uomo che risolverà i tre enigmi che ella gli proporrà. Ma dev'essere un principe di sangue reale, e se non risolverà gli enigmi sarà decapitato; ed è con l'ennesima decapitazione sulla pubblica piazza che inizia l'opera. Il tenore risolve gli enigmi: ma la principessa la prende malissimo; e dunque lui le dà una possibilità: deve indovinare il suo nome (Calaf), che nessuno conosce perché è arrivato da molto lontano. Ecco dunque che, all'inizio del terzo atto, tutta Pechino è in subbuglio: "nessun dorma in Pechino" è stato l'ordine perentorio della terribile Turandot, perché bisogna sapere quel nome ad ogni costo, pena terribili tormenti per i sudditi. E Calaf, anche lui insonne, riprende queste voci: "Nessun dorma..." e conclude con il famoso "all'alba vincerò" ( ma sarà una vittoria triste e drammatica).
(la copertina in alto è quella del disco di cui parlo all'inizio; la foto di Pavarotti al mare viene da un settimanale di molti anni fa che non ricordo, probabilmente L'Espresso o Repubblica) (qui sotto, con Joan Sutherland in "La figlia del reggimento" di Donizetti, l'opera che lo lanciò definitivamente nel novero delle grandi stelle)



 

mercoledì 15 febbraio 2017

Gino Bechi


Il baritono fiorentino Gino Bechi (1913-1993) gira 13 film dal 1943 al 1968; sono più o meno del genere di quelli di Gigli, film tratti da opere liriche e commedie. Alcuni di questi film sono firmati da ottimi registi di quel periodo, come Mattoli e Mastrocinque e scritti da autori divertenti come Metz e Marcello Marchesi. Anche Gino Bechi, cantante forse non finissimo ma dotato di una voce bella, estesa e di gran volume, interprete di tutti i più grandi ruoli da baritono (Rigoletto compreso), diventò molto popolare con le canzoni: una fra tutte “Vieni c’è una strada nel bosco” di Bixio.
Bechi, nato nel 1913, era molto più giovane di Gigli ed è quindi più adatto ai ruoli di innamorato nel cinema. Questi 13 film non sono facili da trovare e io ne ho visti pochissimi, ma ho un buon ricordo (recente) di “Signorinella” , del 1949, regia di Mario Mattoli. Mattòli è stato il regista di alcuni dei film più belli di Totò, Bechi non è propriamente un attore e si aggira un po’ impacciato per la pellicola, che è comunque divertente per la presenza di bravi sceneggiatori e di attori veri e molto bravi, come Aroldo Tieri e Antonella Lualdi, più molti ottimi caratteristi.
Una curiosità è l'Aida del 1953 con la Loren doppiata da una cantante vera; nel ruolo di Amonasro si vede il baritono Afro Poli ma la voce non è di Poli, è di Gino Bechi. Nei due film americani, "Soho conspiracy" e "Toast of the town", Gino Bechi interpreta se stesso, un ospite insomma.
Questo l'elenco dei film girati da Gino Bechi:
Fuga a due voci, regia di Carlo Ludovico Bragaglia (1943)
Torna a Sorrento, regia di Carlo Ludovico Bragaglia (1945)
Pronto, chi parla? (1946) regia di Carlo Ludovico Bragaglia
Amanti in fuga, regia di Giacomo Gentilomo (1946)
Il segreto di Don Giovanni (1947) regia di Camillo Mastrocinque
Arrivederci, papà! (1948) regia di Camillo Mastrocinque
Una voce nel tuo cuore, regia di Alberto D'Aversa (1949)
Follie per l'opera, regia di Mario Costa (1949)
Signorinella, regia di Mario Mattoli (1949)
Soho Conspiracy, regia di Cecil Williamson (1950)
Toast of the town (1951) tv
Aida (1953, solo in voce) regia di Clemente Fracassi
Canzoni a due voci (1953, solo in voce) regia di Gianni Vernuccio
Sinfonia d'amore, regia di Glauco Pellegrini (1954)
La chiamavan Capinera (1957) regia di Piero Regnoli
La traviata (1968) regia di Mario Lanfranchi
(nella foto qui sotto, Bechi è con l'attrice Isa Barzizza; dell'altra non ho trovato indicazioni precise, peccato)

martedì 14 febbraio 2017

Giacomo Lauri Volpi


Giacomo Lauri Volpi, all’anagrafe Giacomo Volpi (probabilmente i “lauri” vengono dall’Aida: tornar di lauri cinto), romano, nato nel 1892 e morto nel 1979, è stato una voce formidabile e cristallina, dagli acuti facili e perfetti e con grandi doti stilistiche. A differenza di altri cantanti come Gigli, Bechi e Schipa, Lauri Volpi è rimasto più nell’immaginario degli appassionati d’opera che in quelli di musica leggera; le sue escursioni nel campo della canzone sono state infatti pochissime, quasi inesistenti. Forse anche per questo il cinema lo ha chiamato poche volte, e infatti su www.imdb.com trovo solo due film con Giacomo Lauri Volpi, “Il caimano del Piave” del 1951, e “La canzone del sole” del 1933.
“Il caimano del Piave” del 1951, regia di Giorgio Bianchi, con Gino Cervi, Carlo Croccolo e Milly Vitale, vede Lauri Volpi interpretare un soldato in trincea durante la guerra; si sa che è un cantante, e in un attimo di tregua gli chiedono di cantare qualcosa. Nella notte, il soldato di Lauri Volpi canta “Cielo e mar” dalla Gioconda di Ponchielli, e tutti si fermano ad ascoltarlo, amici e nemici. “La canzone del sole” è del 1933, regia di Max Neufeld, scritto da Giovacchino Forzano (librettista per Puccini e famoso autore e regista di teatro), dove Lauri Volpi recita a fianco di un giovanissimo Vittorio De Sica.  Giacomo Lauri Volpi fu anche autore di numerosi libri, e giornalista pubblicista; sposò la cantante spagnola Maria Ros e dagli anni '60 visse in Spagna. La sua ultima recita in teatro è del 1959, una carriera lunghissima. Qui accanto, una sua foto come Pollione, dalla "Norma" di Bellini.

domenica 12 febbraio 2017

Il Nobel a Bob Dylan, e altri premi


 
Quanto contano i premi, quanto sono importanti? Confesso di aver sempre dato pochissima importanza ai vari premi letterari e cinematografici (Oscar compreso, con tutti gli aspetti ridicoli dei premi e della loro promozione: "con il premio Oscar XY !!!", - sì ma lo ha vinto con un altro film, mica con questo) ma per il Nobel ho sempre fatto un'eccezione. Certamente anche per il Nobel ci sono stati errori e sviste, e dimenticanze anche clamorose; ma per quanto riguarda la Scienza ci sono riscontri nella nostra vita quotidiana che non è possibile negare. Fisica, Chimica, Medicina, hanno cambiato notevolmente la nostra vita, quasi sempre in meglio, e i nomi degli studiosi che hanno meritato il Nobel sono (quasi) sempre quelli giusti. Scrivo "quasi" perché nessuno è perfetto, e non lo è nemmeno la giuria del Nobel, ma in questi caso siamo sicuramente sopra il novanta per cento delle scelte giuste. Rimangono fuori da questo discorso i Nobel più opinabili, quelli con meno riscontri pratici; in primo luogo quello per la Pace che fu voluto con forza da Alfred Nobel (inventore della dinamite, che la vide usare per scopi militari e non solo civili), e poi quello per l'Economia, che Alfred Nobel non voleva e non aveva affatto previsto (che ricadute pratiche hanno i Nobel per l'Economia? il più delle volte zero assoluto...).
Tutto da discutere è anche il Nobel per la Letteratura: siamo sempre nel campo dell'opinabile, ma a me ha fatto scoprire degli scrittori veramente grandi e quindi lo seguo sempre con attenzione. Il primo Nobel che mi sono segnato, nella mia vita, è stato quello di Isaac Bashevis Singer: uno scrittore che ho amato fin dalla prima lettura, e del quale ignoravo completamente l'esistenza. Mi è piaciuto anche Derek Walcott, e ho provato una piacevolissima sorpresa nel vedere premiato Dario Fo (un premio al teatro, era ora), e poi tanti altri. L'ottobre scorso il premio Nobel per la Letteratura è toccato a Bob Dylan, e va detto che Dylan era nella rosa dei favoriti già da decenni, quindi è stata una sorpresa ma solo fino a un certo punto.
Il Nobel per la letteratura a Bob Dylan a me sta benissimo, e per molte ragioni: la principale è che Dylan ha scritto dei testi molto belli, la secondaria è che oggi non vedo in giro talenti così grandi che siano davvero meritevoli del massimo premio letterario. Nei decenni passati c'era ampia scelta e ci sono stati errori gravi, così come le mancanze (Joyce, Borges, e via dicendo); in anni recenti si è arrivati a premiare anche autori mediocri (Le Clézio, tanto per non fare nomi), e quindi ben venga Bob Dylan. L'ultimo autore premiato che mi sia piaciuto molto è stato lo svedese Transtroemer, poi ammetto di non essere più riuscito a sintonizzarmi con i giurati del Premio, ma la colpa è anche mia (invecchiando si diventa pigri). Anche dal punto di vista formale la decisione del 2016 è ineccepibile: i libri di Dylan sono sempre stati in libreria, da almeno cinquant'anni l'opera di Bob Dylan si poteva portare a casa anche in libreria e non solo nei negozi di dischi. I libri di Bob Dylan sono molti, per esempio io ho qui in casa "Blues ballate e canzoni" (un libro da leggere prima ancora che un supporto per le canzoni), edito per la prima volta nel 1972 a cura di Fernanda Pivano e Stefano Rizzo, e poi più volte ristampato; ma poi ci sono romanzi, scritti vari, tutto in maniera molto personale. Nel cinema, Dylan è stato attore, è protagonista di alcuni film importanti (l'elenco lo metto qui sotto), ha curato la regia di un film (Renaldo e Clara, anno 1978) e ha scritto la colonna sonora per "Pat Garrett and Billy the Kid" di Sam Peckinpah, con la toccante "Knocking on Heaven's door" :
Mama, take this badge off of me
I can't use it anymore.
It's gettin' dark, too dark to see
I feel I'm knockin' on heaven's door.
Mama, put my guns in the ground
I can't shoot them anymore.
That long black cloud is comin' down
I feel I'm knockin' on heaven's door.
Oltretutto, Bob Dylan non è un nome "alla moda": poteva esserlo quaranta o cinquant'anni fa, non lo è oggi. Se ne è parlato molto ed è stato certamente un modo per dare maggiore visibilità al Nobel dopo anni di appannamento mediatico, ma chissà quanti tra i più giovani conoscono davvero Bob Dylan... magari qualcuno lo avrà scambiato per il nome di un fumetto o di un attore di telenovelas (pardon, "serie tv"). La stessa visibilità che ebbe il Nobel, almeno qui da noi, quando fu premiato Dario Fo: un altro premio inaspettato, ma meritatissimo perché era un premio alla grande tradizione teatrale, un po' come se avessero premiato Molière. Sul piano personale, come italiano, ho alcuni grandi rimpianti: Italo Calvino (morto troppo giovane, e in modo inatteso), Eduardo de Filippo (anche lui rappresentato e tradotto in tutto il mondo, come Dario Fo), e soprattutto Primo Levi. Il Nobel a Primo Levi sarebbe stato non solo giusto ma anche necessario, è andata in un altro modo e a me continua a far male, ma così è andata.
Insomma, mi andrebbe tutto bene ma poi ecco che saltano subito fuori i signori nessuno che hanno avuto un certo successo; buon per loro, io sono sempre contento quando vedo qualcuno che se la passa bene. Smettono però di piacermi quando gonfiano il petto e dicono convinti "anch'io anch'io", come se il premio "a un cantante" rendesse di colpo in modo automatico tutti quanti i cantanti Vati e Poeti. Ma così non è, e sarebbe bene farlo presente a chi si è montato la testa: magari hanno scritto il ballo del quaqua, oppure versi immortali del tipo "sei come la mia moto / sei proprio come lei", o magari "il triangolo no", o ancora "vado al massimo, vado in Messico" (wow!) se non "ti amo / ti amo / ti voglio e ti / bramo", "al ventuno del mese i nostri soldi erano già finiti" (considerazione poetica assai profonda), "quella tua maglietta fina" (notare il sottile gioco di parole).  O magari un bel rap, tipo "io faccio la mia cosa nella casa": testi indubbiamente memorabili (nel senso che, ahimè, è impossibile evitarli, in ogni luogo mi trapanano la testa con queste cose qua). Sia ben chiaro, mi sono divertito anch'io con Caparezza e con Frankie HiNG (meno con altri), ma il confine fra un capolavoro e il farsi quattro risate in compagnia dovrebbe essere ben chiaro. Io una volta ho detto che Jacovitti era il più grande disegnatore del Novecento, ma non è che lo pensassi sul serio: sono solo molto affezionato a Cocco Bill e a Zorry Kid e mi diverto ancora oggi quando li ritrovo, però nel Novecento ci sono stati Klee e Picasso, De Chirico e Folon... (eccetera eccetera eccetera). A tutto questo si può aggiungere che la musica di Dylan non è una gran cosa, dal punto di vista dell'invenzione musicale Dylan si rifà a schemi già esistenti, e in questo si muove nella tradizione dei folksingers e dei cantautori, mentre i testi sono sempre molto personali.
Però, di fatto, l'idea che tra i songwriters del Novecento ci siano e ci siano stati grandi poeti, spesso superiori a poeti molto celebrati, è di quelle che mi trovano sempre più d'accordo. Provo ad abbozzare un piccolo elenco personale, del tutto incompleto, solo le prime cose che mi vengono alla memoria: 1) Without a warning you broke my heart... (Scott-Malone, da Live/Dead dei Grateful Dead) 2) Just like a soldier boy I've been out fighting wars That the world never knows about (Tim Buckley) 3) Sono ancora aperte come un tempo / le osterie di fuori porta / ma la gente che vi andava a bere / fuori o dentro è tutta morta (Francesco Guccini) 4) The antique people are down in the dungeons Run by machines and afraid of the tax Their heads in the grave and their hands on their eyes Hauling their hearts around circular tracks (Larry Beckett & Tim Buckley), 5) When they poured across the border I was cautioned to surrender, this I could not do; I took my gun and vanished. (Leonard Cohen) - e tanto altro ancora. Ma, soprattutto, sceglierei i bluesmen degli inizi del Novecento, che ci hanno lasciato alcuni fra i testi fra i più grandi di tutta la storia della Letteratura, così come molti altri folksingers più o meno anonimi, così come molte canzoni popolari di autori sconosciuti. Per esempio, questa: "Love in vain" è sicuramente da Nobel, peccato che non si sia più in tempo.
And I followed her to the station    with a suitcase in my hand
And I followed her to the station    with a suitcase in my hand
Well, it's hard to tell, it's hard to tell    when all your love's in vain
All my love's in vain
When the train rolled up to the station   I looked her in the eye
When the train rolled up to the station   and I looked her in the eye
Well, I was lonesome, I felt so lonesome   and I could not help but cry
All my love's in vain
When the train, it left the station   with two lights on behind
When the train, it left the station   with two lights on behind
Well, the blue light was my blues   and the red light was my mind...
All my love's in vain
(Robert Johnson, anno 1936)

I film di Bob Dylan come attore e regista (fonte: www.imdb.com  )
1963 BBC Sunday Series
1972 Eat the document (regia Bob Dylan, doc. sul tour di concerti del 1966 con The Band)
1973 Pat Garrett and Billy the Kid (regia di Sam Peckinpah)
1978 Renaldo and Clara (regia di Bob Dylan)
1987 Hearts of fire (regia di Richard Marquand)
1990 Catchfire-Ore contate (regia di Dennis Hopper, come Alan Smithee)
1999 Paradise core (regia di Robert Clapsdale)
2003 Masked and anonymous (regia di Larry Charles)
Film importanti su Bob Dylan:
1978 Last waltz di Martin Scorsese
2005 No direction home di Martin Scorsese
2007 I'm not there di Todd Haynes


martedì 7 febbraio 2017

Toti Dal Monte


Toti Dal Monte è il nome d’arte di Antonietta Meneghel, nata a Mogliano (Treviso) nel 1896 e scomparsa nel 1975. Di lei, wikipedia ci racconta che “nel 1945 si ritirò dal palcoscenico, per continuare, spinta da Renato Simoni, la sua carriera nel campo teatrale insieme alla figlia nella compagnia di Cesco Baseggio, in cui recitò testi goldoniani. “ Infatti, consultando www.imdb.com , ho scoperto che la carriera da attrice di Toti Dal Monte è tutt’altro che occasionale: non conosco questi film, ma il nome di Cesco Baseggio, grandissimo attore di teatro e specialista nel repertorio goldoniano, dovrebbe essere una garanzia sufficiente, quindi Toti Dal Monte è stata senza dubbio un’attrice vera e non una presenza occasionale.
Al cinema ha girato sette film, secondo www.imdb.com : si comincia nel 1939 con “Il carnevale di Venezia”, regia di Giuseppe Adami e Giacomo Gentilomo. Adami è il librettista della Turandot di Puccini, oltre che importante autore di teatro; Gentilomo è un regista di cinema con molti titoli al suo attivo in quel periodo. Nel film c’è anche Cesco Baseggio, che interpreta il personaggio di Mòmolo, e Toti Dal Monte (ancora in carriera come soprano) è protagonista.
Il secondo film è del 1943, “Gli assi della risata”, regia di Roberto Bianchi Montero e Guido Brignone. E’ un film a episodi, stavolta Toti Dal Monte non è protagonista anche perché nel cast ci sono attori come Titina De Filippo, Giorgio De Rege (inventore del tormentone “vieni avanti cretino”, insieme a suo fratello), Anna Magnani, e altri attori famosi del teatro di rivista.
Il terzo film di Toti Dal Monte è “Fiori d’arancio” del 1944, regia di Dino Hobbes Cecchini, un film del tutto dimenticato con protagonisti e regista che oggi ricordano in pochi.
Nel 1950, Toti Dal Monte gira “Il vedovo allegro” di Mario Mattòli, che è un regista importante: il regista di alcuni dei film più belli e famosi di Totò, tanto per intenderci. La Dal Monte ha un ruolo secondario, protagonisti sono Carlo Dapporto, Isa Barzizza, Amedeo Nazzari, e poi ci sono ancora Ave Ninchi, Arnoldo Foà, Irasema Dilian, Cesco Baseggio.
Nel 1954 arriva il momento di “Cuore di mamma”, regia di Luigi Capuano, che è il classico film su misura per un cantante all’epoca molto popolare, il napoletano Giacomo Rondinella: Toti Dal Monte è, per l’appunto, la mamma che dà il titolo al film.
Nel 1969 è la volta di una biografia di Oliver Cromwell diretta da Vittorio Cottafavi per la RAI. Si tratta di uno sceneggiato con Sergio Fantoni, Eros Pagni, Giancarlo Sbragia e altri ottimi attori, nel quale Toti Dal Monte interpreta la madre di Cromwell. Il titolo dello sceneggiato è proprio “Oliver Cromwell”.
L'ultima apparizione come attrice di Toti Dal Monte è del 1970, in un film che fu campione d'incassi e che oggi è quasi dimenticato "Anonimo Veneziano"; regia di Enrico Maria Salerno, con Florinda Bolkan e Tony Musante. Toti Dal Monte interpreta un ruolo secondario ma non banale, l'anziana padrona di casa che affitta l'appartamento dove va a vivere la coppia di protagonisti. L'immagine qui sotto viene da "Anonimo Veneziano".
 
 
Proseguendo il discorso su Toti Dal Monte (1896-1975), su wikipedia ho appreso che ebbe una figlia dal tenore Enzo De Muro Lomanto. Il matrimonio fu sfortunato e durò pochissimo, ma i due cantanti ebbero una figlia che ha fatto l’attrice. La biografia di Marina Dolfin (questo è il nome d’arte scelto dalla figlia di Toti Dal Monte) è ricca di notizie interessanti, e le riporto qui così come l’ho trovata su Wikipedia: Marina Dolfin, alla nascita Mary De Muro (Milano, 15 aprile 1930 – Vittorio Veneto, 11 giugno 2007), è stata un'attrice e doppiatrice italiana, attiva in teatro, cinema e televisione dai primi anni cinquanta fino agli anni ottanta. Unica figlia del soprano Toti Dal Monte e del tenore Enzo de Muro Lomanto, prima moglie del doppiatore Giuseppe Rinaldi, e madre dei doppiatori Massimo Rinaldi ed Antonella Rinaldi, in carriera ha dato voce nella distribuzione italiana a Susan Strasberg interprete in Fascino del palcoscenico, film del 1958 diretto da Sidney Lumet. Come attrice teatrale ha lavorato in importanti compagnie, fra cui quella con Giorgio Strehler al Piccolo Teatro di Milano. Con Fantasio Piccoli è stata poi nel 1959 fra gli interpreti di Donna Rosita nubile di García Lorca. È stata poi in compagnia con Cesco Baseggio ed ha interpretato con Renzo Montagnani La coscienza di Zeno adattata per il teatro nella stagione 1978-1979 da Tullio Kezich. La regia in quella occasione era di Franco Giraldi. È stata attiva anche nelle stagioni di prosa radiofonica della RAI.
La carriera di Marina Dolfin è stata quindi prevalentemente teatrale, ma l’ho trovata di recente in una replica su RAI Storia del “Capitan Fracassa” di Theophile Gautier del 1958, regia di A.G.Majano. Protagonista maschile è Arnoldo Foà, ci sono molti attori importanti (il Capitan Fracassa è ricco di ruoli molto belli per un attore) come Ivo Garrani, Alberto Lupo, Ubaldo Lay, Nando Gazzolo. Le protagoniste femminili sono Lea Massari, Giulia Lazzarini e Scilla Gabel; alla Dolfin spetta il ruolo di Serafina, tutt’altro che secondario. Dato che il Capitan Fracassa è una storia che mi piace molto, me ne sono fatto una copia e adesso posso mettere qui un fermo immagine con il volto di Marina Dolfin (anzi, due).
Enzo De Muro Lomanto, all’anagrafe Vincenzo De Muro (pugliese, 1902-1952) è stato un tenore importante ma non ha mai girato film, almeno stando a quanto ne dicono wikipedia e www.imdb.com
(qui sotto, Marina Dolfin con Arnoldo Foà e Lea Massari nel "Capitan Fracassa" del 1959)