5.
Frequentando l’opera lirica (che copre un arco di tempo di quattrocento anni, e quindi ci sono un sacco di cose interessanti), ho imparato che molti grandi successi alle prime sono spariti subito dalla memoria, mentre alcuni fiaschi colossali sono diventati capolavori di grande successo e si rappresentano ancora oggi. Alcuni esempi: la “Madama Butterfly” di Puccini nel 1904, il “Barbiere di Siviglia” di Rossini, “La Traviata” di Verdi, “Carmen” di Bizet, “La Sacre du printemps” di Stravinskij (che è musica per un balletto), perfino l’Eroica di Beethoven (Sinfonia n.3), furono stroncate dalla critica e anche dal pubblico delle prime. Tra i grandi successi (clamorosi successi) oggi completamente dimenticati ci sono praticamente tutte le opere di Mercadante, Meyerbeer, Mascagni. Tra le opere dimenticate ce ne sono anche di ottime, ma per quanto ci si provi non si riesce mai a recuperarle del tutto. La stessa cosa succede anche al cinema: ma qui il discorso si fa diverso, perché il cinema è prima di tutto un’impresa commerciale, e come tale subisce molto l’influenza delle mode. Ne consegue che se si cerca la qualità è sempre un’ottima cosa diffidare delle mode e degli uffici stampa: se guardate sulle tv tematiche, Rai Movie, Iris, i vari canali satellitari, troverete palinsesti pieni di film che furono molto spinti dagli uffici commerciali, con divi e dive ormai completamente dimenticati, resuscitati al solo scopo di riempire due ore di palinsesto; il solo motivo per cui vengono trasmessi in tv è “perché erano lì”. Lì in magazzino, s’intende: pellicole che furono acquistate in blocco da distributori e produttori ormai estinti.
Frequentando l’opera lirica (che copre un arco di tempo di quattrocento anni, e quindi ci sono un sacco di cose interessanti), ho imparato che molti grandi successi alle prime sono spariti subito dalla memoria, mentre alcuni fiaschi colossali sono diventati capolavori di grande successo e si rappresentano ancora oggi. Alcuni esempi: la “Madama Butterfly” di Puccini nel 1904, il “Barbiere di Siviglia” di Rossini, “La Traviata” di Verdi, “Carmen” di Bizet, “La Sacre du printemps” di Stravinskij (che è musica per un balletto), perfino l’Eroica di Beethoven (Sinfonia n.3), furono stroncate dalla critica e anche dal pubblico delle prime. Tra i grandi successi (clamorosi successi) oggi completamente dimenticati ci sono praticamente tutte le opere di Mercadante, Meyerbeer, Mascagni. Tra le opere dimenticate ce ne sono anche di ottime, ma per quanto ci si provi non si riesce mai a recuperarle del tutto. La stessa cosa succede anche al cinema: ma qui il discorso si fa diverso, perché il cinema è prima di tutto un’impresa commerciale, e come tale subisce molto l’influenza delle mode. Ne consegue che se si cerca la qualità è sempre un’ottima cosa diffidare delle mode e degli uffici stampa: se guardate sulle tv tematiche, Rai Movie, Iris, i vari canali satellitari, troverete palinsesti pieni di film che furono molto spinti dagli uffici commerciali, con divi e dive ormai completamente dimenticati, resuscitati al solo scopo di riempire due ore di palinsesto; il solo motivo per cui vengono trasmessi in tv è “perché erano lì”. Lì in magazzino, s’intende: pellicole che furono acquistate in blocco da distributori e produttori ormai estinti.
Si salva dall’oblio solo
il cinema d’autore, quello di qualità alta o altissima: Chaplin,
Kubrick, Fellini, saranno sempre cercati dagli appassionati di
cinema; ed è un po’ la stessa cosa che è successa con Mozart,
Verdi, Wagner, Ravel, Donizetti, Puccini, Gluck e Monteverdi.
Un’altra cosa ho
imparato dall’Opera: a cercare i dialoghi, le sceneggiature, i
versi. Se non ci sono nei libri, come capita quasi sempre con i film,
copiarle con pazienza. Cercare le fonti, la mitologia greca, leggere
l’Ariosto anche se non è più materia di scuola, leggere Boito e
Hofmannstahl, queste cose qui. Insomma, all’Opera bisogna arrivare
preparati. Poi, alla Carmen di Merimée manca la musica, alla Tosca
di Sardou mancano le immagini, il materiale così raccolto di per sè
è povero, come lo scheletro rispetto alla persona intera; ma
conoscendo l’anatomia si disegna meglio, si colgono particolari che
sfuggirebbero.
Non esiste niente di più
bello dell’Opera, come ben sa chi la conosce per davvero: ma
l’Opera non ammette mezze misure, serve la perfezione o almeno
qualcosa che le vada vicino, altrimenti si rischia il disastro.
L’Opera sopravvive perfino al ridicolo, dal punto di vista visivo o
della parodia; ma l’esecuzione musicale deve essere perfetta. E
anche questa è una lezione da imparare: serve anche quando si vede
un film.
Al cinema,
“melodrammatico” è diventata una brutta parola, con significato
quasi sempre negativo, sinonimo di pacchiano ed esagerato.
Consiglierei però a tutti di ascoltare con attenzione il Trovatore
di Giuseppe Verdi (1853) che si può definire L’Opera Lirica per
eccellenza: è vero che il soggetto non è dei più fini che si
possano trovare, ma se dopo aver ascoltato il notturno di “Tacea la
notte placida” date ancora a “melodrammatico” il significato di
pacchiano ed esagerato vuol dire che è dentro di voi che c’è
qualcosa che non va.
E comunque l’Opera ha
quattro secoli di vita, dal 1607 dell’Orfeo di Monteverdi fino ad
oggi, o quanto meno fino alla Turandot di Puccini (1926), e dentro
c’è di tutto. Mettere nello stesso cesto Gluck e Mascagni mi
risulta difficile, si tratta di persone e caratteri diversi in
momenti storici diversi. L’opera ha quattro secoli di storia, mica
si possono mettere assieme epoche e caratteri diversi; Wagner e Verdi
hanno la stessa età (entrambi classe 1813) ma è forse l’unica
cosa che avevano in comune; e lo stesso ragionamento si può
applicare al cinema, non si può mettere tutto dentro un calderone e
bisogna imparare a conoscere le singole personalità, e a
rispettarle.
Parlo del cinema al
passato perché ormai il cinema è finito, è un rito che non tornerà
più. “Rito” è proprio la parola adatta: al cinema si faceva la
coda per il biglietto, si stava al buio, lo schermo era enorme, la
sala era quella di un vero teatro, o qualcosa di molto simile. I
multisala non sono più così, sono soltanto dei salottini con un
grande televisore; e – soprattutto – nessuno più produce film
per il grande schermo. Da almeno dieci anni in qua, tutti i film sono
pensati per la tv: per lo schermo piccolo, e con i ritmi interni del
film dettati dalla pubblicità. Non ci sono più i registi che
pensavano in grande, uno schermo enorme su cui proiettare le loro
messe in scena e le loro fantasie, con piani sequenza di lunghezza
indefinita (vedi alla voce “Alfred Hitchcock”, prima ancora di
Antonioni); l’ultimo sopravvissuto di questa razza è forse
Bernardo Bertolucci, ma chissà se girerà mai un altro “Novecento”,
un altro “L’ultimo imperatore”... I film di Stanley Kubrick,
visti in tv, fanno tristezza. Nessuno dei film di Kubrick è stato
mai pensato per il piccolo schermo, non “2001 odissea nello
spazio”, non “Arancia meccanica”, non “Shining”, men che
meno “Orizzonti di gloria”, “Spartacus”, “Barry Lyndon”...
A inizio ‘900, l’opera
lirica era già morta: dirlo allora sarebbe sembrato una pazzia, ma
così è andata. Dopo il 1926, dopo la prima di “Turandot”,
nessuna opera lirica ha mai più raggiunto quella popolarità. E
oggi, nel nuovo millennio, nessun film ha mai più avuto il fascino
dei film della grande stagione del cinema. Si sono fatti dei bei film
e se ne faranno ancora, ma è finita un’epoca (a proposito: “film”
significa pellicola, e oggi le pellicole non si usano più, né sulle
macchine fotografiche né al cinema).
L’inizio di “Scarpette
rosse” di Powell e Pressburger è quello che rappresenta meglio lo
spirito con il quale si andava a teatro, e spero che sia ancora così
per molti, anche se si è fatto di tutto per scoraggiare i giovani
dall’andare a teatro negli ultimi vent’anni (i teatri e i cinema
li hanno presi saldamente in mano i seguaci di Berlusconi, peggio di
Attila dopo la grande stagione di Strehler, Grassi e Abbado: chi
avrebbe mai detto che sarebbero stati gli ultimi della loro
razza...).
A teatro, i ricchi
andavano nei palchi, gli altri un po’ ovunque: ma i teatri erano
sempre pieni, e così erano sempre pieni i cinema degli anni ’60 e
’70. Tutti vedevano tutto, tutti conoscevano Verdi e Fellini, non
esisteva la differenza tra musica colta e musica leggera, non
esisteva la differenza tra cinema d’autore e cinema commerciale.
Elio Petri diceva: “ho scelto di fare cinema perché con il cinema
posso parlare a tutti”. Era vero negli anni ’60, ma oggi?
I dipinti e le incisioni
dei teatri antichi ci spiazzano quasi sempre, è difficile
riconoscere i teatri non perchè siano cambiati, ma perché mancano
le sedie in platea. In platea c’erano i posti in piedi, si entrava
e si usciva, anche alla Scala era così fino agli anni ’40 e ’50
del Novecento, anche se c’erano già le poltroncine numerate
qualcosa delle antiche usanze persisteva. Al cinema, era la stessa
cosa, e anche di più: ma oggi nei multisala non c’è più vita.
Alle volte, basta poco per uccidere una tradizione, per
sterilizzarla: basta poco, anche il posto numerato da cui non puoi
alzarti e andar via se qualcuno ti disturba (soprattutto per le
donne, si tratta di un’opzione importante).
Rimane ancora qualcosa da
dire, forse, sulle voci dei cantanti d’opera: che sono costruite a
quel modo perché l’amplificazione elettrica esiste solo da
cent’anni, mentre il teatro si fa da quando esiste l’uomo.
Esistono tecniche (antichissime) per amplificare naturalmente il
volume della voce: le studiavano (e le studiano ancora) oratori,
preti dal pulpito, ambulanti del mercato, tutti quelli che avevano
bisogno di farsi sentire ed ascoltare. E’ per questo che i cantanti
d’opera fanno quelle voci che a tanti non piacciono, perché quella
tecnica permette di amplificare naturalmente la voce. Ovviamente, con
un microfono davanti cambia tutto: può piacere o meno, ma
l’amplificazione elettrica è la negazione del teatro,
l’annullamento di millenni di comunicazione attraverso la voce. E
sono in tanti a non capirlo, ma come si fa a portare cinquantamila
watt all’Arena di Verona, alla Scala, al teatro di Epidauro? Meglio
starsene a casa, con un disco, e chiudere gli occhi: l’immaginazione
è la miglior cosa, i migliori spettacoli sono quelli che abbiamo
immaginato dentro di noi. E, sia ben chiaro, si intende: per chi ce
l’ha, l’immaginazione.
Altri film d’opera che
fin qui non ho nominato: un “Macbeth” verdiano del francese
Claude D’Anna con Leo Nucci e Shirley Verrett protagonisti (1988);
i film di Jean Pierre Ponnelle, molto belli e ben fatti: per esempio
una “Madama Butterfly” di Puccini con Mirella Freni e Placido
Domingo (1974: Ponnelle è stato uno dei grandi registi d’opera
negli anni ’70 e ’80), un film di Sordi degli anni ’50 tutto
basato sul finale della “Traviata” (non mi ricordo mai il
titolo), Kenneth Branagh e il recentissimo Flauto Magico che non mi
è piaciuto per niente (l’avrebbero fatto meglio i Monty Python: la
Regina della Notte arriva su un carrarmato), “Diva” di Beineix
(1982, storia noir sul fan di una cantante d’opera), “Il maestro
di musica” di Gerard Corbiau (1988, film piuttosto noioso dove però
il protagonista è il basso belga Josè van Dam), Bruno Bozzetto e i
finali a raffica in “Allegro non troppo” (1978, divertentissimo
provare a riconoscerli tutti), Peter Brook e l’adattamento della
“Carmen” di Bizet (1983, “La tragédie de Carmen”), “Carmen
Jones” di Otto Preminger (1954), e molto altro ancora. Mi fermo
qui, ma ricomincio fin da subito a raccogliere titoli e materiali.
Le immagini vengono tutte
da “La regola del gioco” di Jean Renoir, anno 1939. (l’orso è
sempre Jean Renoir, in persona, un omaggio dovuto).
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