martedì 29 novembre 2016

Monsieur Beaucaire (ovvero "Montecarlo" di Lubitsch)


 
Monte Carlo (1930) regia di Ernst Lubitsch. Soggetto di Hans Muller, Boothe Tarrington. Fotografia di Victor Milner. Musiche di Richard Whiting e Franke Harling; l'opera "Monsieur Beaucaire" è di André Messager. Interpreti: Jeanette Mac Donald, Jack Buchanan, Claude Allister, Lionel Belmore, ZaSu Pitts Durata: 1h25'

“Monsieur Beaucaire” è il titolo dell’opera lirica che risolve l’azione in “Montecarlo” di Lubitsch, un film del 1930 un po’ sciocchino ma molto simpatico, con ottimi interpreti e molte belle canzoni come “Beyond the blue horizon”, cantata da Jeanette Mac Donald. L’opera che si vede in teatro nel finale del film si svolge nel ‘700, e parla di una giovane nobildonna che si innamora di un uomo credendolo a lei pari, mentre è in realtà un parrucchiere per signora; alla fine scoprirà che il presunto parrucchiere è davvero il principe, ma sarà troppo tardi. E’ lo stesso soggetto del film, ma a parti rovesciate.


Pensavo che fosse un’opera inventata, invece esiste veramente: soggetto di Booth Tarrington, musica di André Messager (1853-1929, francese). Ebbe la sua prima nel 1919, è un’opera in tre atti, e da questo soggetto fu tratto anche un film con Rodolfo Valentino sei anni prima del film di Lubitsch, 1924. Un altro film su Monsieur Beaucaire, con Bob Hope, sarà girato nel primo dopoguerra, sedici anni dopo Lubitsch. Era quindi un soggetto noto e conosciuto, anche se oggi il nome di André Messager è completamente dimenticato. Le notizie in proposito le ho trovate su wikipedia in inglese, pare che alcune arie di quest’opera siano ancora popolari in Gran Bretagna. Le musiche scritte apposta per il film sono invece firmate da Richard A. Whiting e W. Franke Harling, con i testi di Leo Robin, e confesso apertamente che sono molto più belle di quelle di Messager, soprattutto "Beyond the blue horizon" è molto piacevole (ma la vista di Jeanette Mac Donald mi condiziona molto, lo ammetto).


La protagonista del film di Lubitsch deve sposare un ricco Duca, prospettiva allettante dal punto di vista economico, ma solo da quello. E dunque fugge prima delle nozze, la vediamo difatti da sola su un treno per Montecarlo proprio all'inizio del film. A Montecarlo se la passerà bene, il Duca non rinunzia a lei e non le fa mancare niente sperando di riconquistarla; ma qui viene notata da un bel giovane, che per avvicinarla si fa passare per parrucchiere per signora. Ovviamente non è capace di fare il parrucchiere, e combina disastri; ma passata l'arrabbiatura la ragazza si scopre innamorata. Ma il barbiere a un certo punto è sparito, mentre il Duca è ancora lì: che fare?
 


La soluzione del dramma (si fa per dire, non è mica un dramma) sarà appunto in "Monsieur Beaucaire" di André Messager: il Duca porta la "fidanzata" all'opera, ma poi si addormenta. La giovane esce dal palco ed entra nell'altro palco, quello del giovane che credeva un parrucchiere. Ormai ha capito: come nell'Amleto con "la morte di Gonzago", ma senza la minima implicazione tragica, l'opera sul palcoscenico le ha parlato della sua vita. Solo il finale non va bene: nell'opera di Messager, il principe che fu parrucchiere congeda seccamente la signora ("Non c'è nulla da perdonare, vi siete soltanto attenuta alle regole della nostra società") e se ne va lasciandola piangente. Quando la protagonista del film è già preoccupata, l'innamorato la consola: "Questo finale non mi piace, preferisco un lieto fine". E lieto fine sarà, almeno per il tempo necessario a salire sul treno e riprendere a cantare "Beyond the blue horizon"... poi, chi lo sa cosa sarà successo - ma sono una così bella coppia, inutile star lì a pensare al dopo; e poi queste illazioni al cinema non si fanno, si rischia di passare per noiosi come il povero Duca.
 
 
 
(le immagini vengono da una mia vhs di trent'anni fa, quando la Rai svolgeva ancora la funzione di servizio pubblico e non si "dimenticava" di trasmettere i film più belli; ringrazio molto Vieri Razzini, ancora oggi, e spero di rivederlo riprendere il suo posto quanto prima) (sperare non costa niente...)
 
 
 

domenica 27 novembre 2016

In corso d'opera ( IV )


4.
Agli inizi del cinema sonoro, negli anni ’30, furono portate al cinema alcune opere liriche e molte operette, e molti grandi musicisti e cantanti d’opera fecero apparizioni (magari brevi) nei film. Probabilmente, per attirare pubblico e fare colpo con la nuova tecnologia, la musica era proprio quello che ci voleva, molto più interessante che non ascoltare la voce degli attori.
Negli anni ’30 ci sono infatti molti titoli interessanti; e c’è un po’ di tutto, dall’operetta vera e propria, come “La vedova allegra” di Ernst Lubitsch (1934, con Maurice Chevalier) al musical con balletti e coreografie spettacolari (le meraviglie di Busby Berkeley, tanti film uno più bello dell’altro), ai film di Fred Astaire e Ginger Rogers, fino ad adattamenti decisamente folli come quelli dei fratelli Marx (Duck soup, “La guerra lampo dei fratelli Marx”, del 1933, è La Vedova allegra di Franz Lehar, ma senza la musica di Lehar), o come quelli di Stan Laurel e Oliver Hardy (Fra Diavolo di Auber, 1933, e The bohemian girl di Balfe, 1934, con larghi estratti delle vere musiche dalle due opere ottocentesche). Menzione a parte per i film di René Clair: “Il Milione” soprattutto (del 1931: favolose le scene in teatro, forse le più belle, certamente le più divertenti, alla pari solo con i Marx), ma su René Clair non mi dilungo perché gli ho dedicato uno spazio apposito su giulianocinema.


Può stupire vedere l’opera lirica associata alla parodia, all’umorismo, ma si tratta invece di qualcosa di assolutamente normale. Parodia è proprio un termine musicologico; e da che mondo è mondo tutti i musicisti hanno sempre fatto citazioni, parodie, sberleffi, di se stessi e degli altri musicisti. Basterà citare titoli come “Il maestro di cappella” (musicato da vari compositori, un perfetto pretesto per fare il verso ad amici e concorrenti), “Il viaggio a Reims” di Rossini, gli inglesi Gilbert and Sullivan, Offenbach e il mondo classico rivisitato: “Orfeo agli inferi”, “La bella Elena”, ma anche “La Périchole”, Mozart nel finale del “Don Giovanni”...

 
Ci sono poi molti cantanti d’opera scritturati come attori, e a questo proposito mi piace ricordare che almeno due grandissimi attori hanno iniziato la loro carriera come tenori, in palcoscenico: Forest Whitaker e Oliver Hardy. La voce di Whitaker non l’ho mai ascoltata, quella di Oliver Hardy è reperibile ovviamente sul sonoro originale, ma anche nel doppiaggio italiano la voce di Ollio quando canta raramente è stata toccata, e l’esempio più bello è probabilmente in “Way out west”(1937, titolo italiano “I fanciulli del West”). Sui cantanti d'opera al cinema si baseranno molti dei miei prossimi post.

Si può allargare il discorso ai film biografici, sui musicisti; e qui ci sono parecchie delusioni. In parte perché quasi sempre la parte biografica non è quella più interessante, nella vita dei musicisti; e poi, in altri casi, molti film biografici sono brutti perché vogliono mettere troppe cose, e si finisce per fare confusione. Per esempio con Verdi, che ha avuto una vita molto lunga e molto ricca, sarebbe meglio concentrarsi su qualche dettaglio e non mettere tutto di tutto. Esemplare il caso di Mike Leigh che in “Topsy-turvy” (1999, su Gilbert and Sullivan) ha scelto le poche settimane precedenti la nascita di “The Mikado”, realizzando un film molto bello.


Tra i film biografici, impossibile non menzionare “Casa Ricordi” (1954, regia di Carmine Gallone), la vita di Puccini con protagonista Gabriele Ferzetti, e i vari film di Gallone, Matarazzo, quelli con Mario Lanza e tutti i registi e sceneggiatori più o meno pasticcioni che sul soggetto si sono cimentati. In questi film ci sono cose buone e cose meno buone (ottimo il Ricordi di Paolo Stoppa, per esempio), ma direi che lasciano il tempo che trovano, così come il film su Ciaikovskij (grande compositore operistico) girato da Ken Russell nel 1972, troppo attento ai pettegolezzi e molto distratto riguardo alla musica. Oltre a quelle sulla vita di Ciaikovskij, mi annoiano molto le varie battute su Puccini: magari divertenti ma sempre poco sensate. Il teatro e la vita non son la stessa cosa, e l’opera non è mai realistica. E soprattutto confondere un autore con la sua opera, che sia musicista romanziere o pittore, è un errore molto facile da commettere. Puccini, nel complesso, con le donne si è sempre comportato abbastanza bene; le sue colpe sono di certo inferiori a quelle commesse da molti di noi nella nostra vita. Tutti noi ci siamo traditi e lasciati, se la cosa non è finita in disgrazia a volte è questione di poco. Le trame operistiche sono quasi sempre ridicole e insensate, l’opera è il regno del nonsense (la malata di tisi che canta per mezz’ora prima di morire, il Werther di Massenet che si spara e poi canta per un’ora a voce spiegata, idem il wagneriano Sigfrido che ci racconta tutta la sua vita con la lancia di Hagen conficcata nel petto...). Ci tengo molto a sottolineare la differenza tra l’autore e la sua opera, altrimenti si finisce come a scuola col povero Leopardi, confinato dentro la siepe che aveva davanti a casa, proprio quella lì e non un’altra, e l’ermo colle che era solo un rialzo del terreno, e la gobba, e Silvia... Ma questo è un altro discorso, forse è meglio tornare al cinema e cercare di finire il discorso che ho cominciato.


“Il fantasma dell’opera” (in tutte le sue declinazioni) è soltanto un film dell’orrore e non ha nulla a che fare con l’Opera, si limita a sfruttare le potenzialità del Teatro, delle maschere e dei costumi, e dei suoi mille anfratti. Idem per il film di Sordi sul bambino che canta da baritono (“Bravissimo”, anno 1954, regia di L.F.D’Amico), insensato e che non fa nemmeno ridere.
Con l’opera lirica hanno invece a che fare soggetti come “Il Barone di Munchhausen” e “Belfagor il fantasma del Louvre”: benché di opera non parlino, il clima è quello, e ci sono anche arie e duetti e pezzi d’insieme e intermezzi sinfonici e concertati. Idem Buñuel (quasi tutto), Sergio Leone (quelle pause e quei silenzi sono opera lirica purissima), i fratelli Coen, Jean Pierre Jeunet, Frank Darabont, Brian De Palma, Vittorio De Sica, William Dieterle, Atom Egoyan, John Ford, Pietro Germi, John Huston (in “Moby Dick” Welles e Peck hanno vere e proprie romanze, e concertati), Abbas Kiarostami, Stanley Kubrick (tutto è musica, in Kubrick), Akira Kurosawa (l’opera italiana e il teatro No giapponese), Emir Kusturica (rossiniano come pochi), Mario Mattoli (rossiniano puro, così come Camillo Mastrocinque), Peckinpah, Polanski, Powell and Pressburger, Satyajit Ray, Godfrey Reggio con Philip Glass, Edgar Reitz e la musica di Heimat, Jean Renoir (Jean Renoir, la danse macabre di “La regola del gioco”!!), Sternberg, Straub-Huillet, Béla Tarr, Jacques Tati, i Taviani, di tutti questi registi mi sento di dire che qualcosa a che fare con l’opera ce l’hanno di sicuro. Non saprei dire di preciso che cosa, ma hanno sempre romanze, duetti, arie, concertati, intermezzi, ouvertures...Non c’è un riferimento preciso, ma la struttura musicale (i pezzi chiusi operistici, per esempio, o la sinfonia ininterrotta di Wagner) è quella.

 
Fritz Lang direi di no (forse ha qualcosa di Hindemith), Jerry Lewis è un virtuoso rossiniano proprio come Totò (Totò basso buffo, Lewis tenore contraltino), Ken Loach è parente dello Stravinskij di “The rake’s progress”, Monicelli e Risi sono bravi ma poco musicali, Nanni Moretti cita “E lucean le stelle” ma poi dimostra di conoscere poco altro e preferisce le canzonette, Pasolini usa spesso la musica a sproposito (la Callas in “Medea” recita solamente, e la musica di Prokofiev per l’Aleksandr Nevskij non c’entra niente con il Vangelo), Francesco Rosi mah (poco o niente a che fare con l’opera, direi), Raul Ruiz onirico (riferimento d’obbligo: “I pescatori di perle” di Bizet), Weir lo assocerei vagamente a Ravel e a Debussy ma forse più Britten e Vaughan-Williams , “Zorba il greco” (1965, con Anthony Quinn) è un’opera in tutto per tutto, così come Otar Ioseliani e “Il merlo canterino” (1971) che racconta di un timpanista che trova il mezzo di andare e venire dalla fossa orchestrale approfittando delle moltissime pause per il suo strumento previste nella partitura.
Racconta la storia di una cantante d’opera Federico Fellini in “E la nave va” (1983: ma Fellini è lontanissimo dall’Opera), parla di opera lirica anche Peter Greenaway (ma direi che è lontanissimo dall’Opera anche lui), forse qualcosa di Marco Ferreri, sicuramente tutto Bertolucci.
Bernardo Bertolucci ha dedicato all’opera il finale di “Prima della rivoluzione” (1963), dove si vede il Macbeth di Verdi al Teatro Regio di Parma, poi La luna, Strategia del ragno, Novecento, qualsiasi cosa tranne forse i film ambientati in Cina o nel Sahara (ma, anche qui, non è mica detto).
Però, siccome anche a Bernardo Bertolucci ho dedicato uno spazio apposito, per oggi mi fermo qui e vedrò di concludere come meglio posso nella prossima puntata (però rileggo e mi accorgo che ho fatto un gran pasticcio, pazienza: questi appunti erano qui da almeno tre anni, bisognava pur liquidarli in qualche modo).


(Le immagini di questo post vengono tutte dai film di Sergio Leone.
 

giovedì 24 novembre 2016

La Bohème (Comencini 1988)


La Bohème (1988) Regia di Luigi Comencini. Tratto dall'opera di Puccini. Fotografia di Armando Nannuzzi. Interpreti: Luca Canonici (voce di Josè Carreras), Barbara Hendricks, Gino Quilico, Francesco Ellero D'Artegna, Angela Maria Blasi, Richard Cowan, Federico Davià, Ciccio Ingrassia (voce di Michel Senechal), Mario Maranzana (voce di Federico Davià), Massimo Girotti. Direttore d'orchestra: James Conlon. Orchestre Nationale de France, Coro Radio France. Durata: 1h 55 minuti circa

Negli anni 80, sull'onda del successo del "Don Giovanni" con regia di Losey e di "Amadeus" di Milos Forman, a loro volta ispirati dal "Flauto Magico" girato da Ingmar Bergman, furono girati molti film d'opera. Alcuni sono belli, come la "Madama Butterfly" messa in immagini da Jean Pierre Ponnelle, ma molti di questi film mi sembrano fatti senza una vera convinzione, magari con molta professionalità ma mai veramente ispirati. In quest'ambito metterei anche "La Bohème" girata da Luigi Comencini nel 1988, un buon film ma non direi memorabile. Comencini era un grande regista, ma non sempre è stato all'altezza di se stesso; quello che probabilmente gli mancava, così come a Dino Risi o a Monicelli, è una completa presa di coscienza delle proprie capacità come autore. Quando Comencini fa quello che vuole davvero fare, abbiamo i suoi film più belli e importanti, ma non è che sia successo sempre. Se si scorrono i titoli dei film di Comencini (penso di averli visti tutti) si trovano ottimi lavori come "Tutti a casa", "Pinocchio", "L'ingorgo" , ma anche film come "Senza sapere niente di lei" o "Mio Dio come sono caduta in basso" che sembrano girati solo per compiacere i produttori. Senza convinzione, ma con grande professionalità: ma i grandi registi hanno sempre preteso completa autonomia, da noi come a Hollywood. In Germania, negli anni '70, Wim Wenders, Herzog, Fassbinder, Reitz, fondarono una propria casa di produzione proprio per non dover scendere a troppi compromessi. Ecco, è questa mancanza di convinzione che mi dispiace di non trovare nella filmografia di Luigi Comencini, un regista che personalmente amo e ammiro da sempre.


"La Bohème" di Comencini è comunque un film piacevole e ben fatto. Protagonista femminile è Barbara Hendricks, grandissima cantante, molto giovane e molto bella, afroamericana: una Mimì di Parigi e nera di pelle, si ragionava all’epoca, in fin dei conti, è tutt’altro che inverosimile. La Francia ha da sempre avuto le colonie, e dalla Rivoluzione in poi erano stati fatti passi in avanti che in altri paesi tardavano a giungere (il padre di Alessandro Dumas era un nero caraibico, ufficiale napoleonico). Il ruolo di Rodolfo è diviso fra Josè Carreras e Luca Canonici, due tenori: Carreras incise la parte cantata e doveva essere protagonista anche del film, ma proprio in quel periodo fu colpito da una grave malattia (dalla quale è poi fortunatamente guarito) e dovette essere sostituito durante le riprese dall’ottimo Luca Canonici, anche lui tenore e anche lui di bell’aspetto. Di conseguenza, si ascolta Carreras e si vede Canonici: il che sembra un po’ strano, ma non disturba. Tra gli altri interpreti, il soprano Angela Maria Blasi (Musetta), il basso Francesco Ellero D'Artegna (Colline), Richard Cowan (Schaunard), Federico Davià (Benoit e Alcindoro, quest'ultimo solo in voce), e come Marcello il baritono canadese Gino Quilico, già protagonista nel 1985 dell’Orfeo di Monteverdi nel film di Claude Goretta. Nel film c’è anche Ciccio Ingrassia (ovviamente doppiato), che è il venditore di giocattoli Parpignol: come ben sanno gli appassionati d’opera, è una di quelle parti in cui si canta una frase sola (“ecco i giocattoli di Parpignol”), ma molto esposta; se la si sbaglia si rischia una figuraccia. La direzione d'orchestra è di James Conlon, con l'Orchestre Nationale de France; qua e là si intravvedono anche attori italiani di nome, come Massimo Girotti e Mario Maranzana.

L'epoca storica è stata spostata in avanti di ottant'anni circa, dal 1830 del romanzo di Henri Murger (come in Puccini) agli inizi del Novecento; per questo spostamento è stato necessario cambiare alcuni versi del libretto, cosa che dispiacerà agli appassionati di Puccini. Le foto che porto qui sono foto tratte da dépliants e materiale pubblicitario.
 

martedì 22 novembre 2016

L'uomo che sapeva troppo


- The man who knew too much (1934) Regia di Alfred Hitchcock. Soggetto di Charles Bennett e Wyndham Lewis. Fotografia: Curt Courant. Musica di Arthur Benjamin, diretta da Louis Levy. Interpreti: Leslie Banks, Edna Best, Peter Lorre, Nova Pilbeam, Pierre Fresnay, Frank Vosper, Hugh Wakefield, Cicely Oates, e altri. Durata: 84 minuti
- The man who knew too much (1956) Regia di Alfred Hitchcock. Soggetto di Charles Bennett e Wyndham Lewis. Fotografia: Robert Burks. Musica di Bernard Herrmann; la cantata "Storm cloud" è di Arthur Benjamin, diretta da Bernard Herrmann. Interpreti: James Stewart, Doris Day, Daniel Gélin, Brenda de Banzie, Bernard Miles, Christopher Olsen, Bernard Herrmann (il direttore d'orchestra) e altri. Durata: 120 minuti.

Nel 1934, in Inghilterra, Alfred Hitchcock gira "L'uomo che sapeva troppo"; ne farà un remake a Hollywood, ventidue anni dopo, in Technicolor e con maggiori mezzi e finanziamenti a disposizione. Quello del 1956 è un film famoso, che viene riproposto spesso anche dalle nostre tv; quello del 1933 è altrettanto famoso ma lo si vede molto meno, ed è un peccato che questi film non siano più visibili come meriterebbero. Però qui non porterò questi due film per intero, ma mi limiterò a parlare delle scene in teatro, che Hitchcock mette al centro della scena madre, alla quale teneva moltissimo. Metterò il mio parere (per quel che conta) alla fine; riporto qui i brani relativi a queste scene presi dalla famosa intervista di François Truffaut ad Alfred Hitchcock.
 
TRUFFAUT: The Man Who Knew Too Much (L’uomo che sapeva troppo) é stato il suo più grande successo inglese e ha riscosso molto successo anche in America. Una coppia di turisti inglesi sta facendo un viaggio in Svizzera con la propria bambina. Assistono all'omicidio di un francese, il quale, prima di morire, fa in tempo ad affidare loro un messaggio che svela il complotto per uccidere un ambasciatore straniero in visita a Londra. Per essere sicuri del silenzio della coppia, le spie rapiscono la bambina. Di ritorno a Londra, la madre, che é alla ricerca dei rapitori, riesce a salvare la vita dell’ambasciatore gridando proprio nel momento in cui sta per essere colpito da una revolverata durante l’esecuzione di un concerto all’Albert Hall. Nel finale vediamo l'assedio della polizia al covo delle spie e il salvataggio della bambina. Ho letto da qualche parte che era ispirato a una storia vera, a un fatto di cronaca del quale Churchill, allora capo della polizia, era stato uno dei protagonisti.
HITCHCOCK: E' vero, ma solo per quel che riguarda il finale; questo avvenimento risale al 1910 ed e conosciuto come l’assedio di Sidney Street. (...) avevamo deciso di far vedere all’inizio del film che la protagonista, la madre della bambina rapita, era un'ottima tiratrice con la carabina. Poi i malviventi la ipnotizzavano durante la scena della cappella e quindi la trasportavano, sempre in stato d'ipnosi, fino all’Albert Hall, in modo che qui facesse lei stessa il lavoro dell‘assassino uccidendo l'ambasciatore! Ho lasciato perdere questa idea perché ho pensato che anche una campionessa di tiro non avrebbe una mira molto precisa in stato di ipnosi.
F.T. La cosa interessante é che lei ha adottato l’idea opposta perché non solo la donna non uccide l'ambasciatore, ma gli salva la vita, lanciando un grido al momento giusto, quando, durante il concerto, vede la rivoltella dell’assassino puntata contro il palco d'onore... Ma mi permetta di riassumere l'episodio per rinfrescarci la memoria. Le spie hanno dunque deciso di uccidere questo diplomatico straniero durante un concerto all‘Albert Hall. L’assassino dovrà sparare durante l’esecuzione della cantata, nel momento in cui sarà data l’unico colpo di cembali previsto dalla partitura. Hanno "provato" l'attentato a freddo, ascoltando più volte la cantata da un grammofono.
Dunque il concerto incomincia, tutti i personaggi sono al loro posto e noi attendiamo con angoscia crescente il momento in cui il cembalista, impassibile, userà il suo strumento.


A.H. L’idea del colpo di cembali mi é stata suggerita da un disegno umoristico, o meglio da una serie di disegnini che occupavano quattro pagine di una rivista del tipo di Punch. Mostravano un uomo che si sveglia. Si alza da letto, va in bagno, i gargarismi, si rade, fa una doccia, si veste e fa colazione. Tutto questo in diverse vignette. Poi si mette il cappello, il cappotto, prende una piccola custodia di cuoio per uno strumento musicale ed esce in strada, sale sull’autobus, entra in città e arriva alla Albert Hall. Entra nell’ingresso riservato agli artisti, si toglie il cappello, il cappotto, apre la custodia e tira fuori un piccolo flauto; raggiunge gli altri musicisti e insieme a loro va verso il podio. Si accordano gli strumenti, il nostro uomo si siede al suo posto. Arriva il direttore d'orchestra, dà il segnale e inizia la grande sinfonia. L’omino é seduto qui, aspetta, volta le pagine.
Finalmente si alza dalla sedia, prende lo strumento, l’avvicina alla bocca e, a un certo segnale del direttore d’orchestra, soffia una nota nel flauto: bloop. Poi ripone lo strumento, lascia discretamente l'orchestra, riprende il cappello, il cappotto, esce in strada. Fa buio. Prende l’autobus, arriva a casa, cena, va in camera, entra in bagno, fa i gargarismi, si mette il pigiama, va a letto e spegne la luce.
F.T. E' molto divertente. E un‘idea che é stata ripresa diverse volte, mi sembra, nei cartoni animati, per esempio con un triangolo. ..
A.H. Probabilmente si intitolava "l’uomo e la nota"; la storia di questo omino che aspetta il momento di suonare una sola nota mi ha suggerito il suspence del colpo di cembali.
F.T. Non ricordo perfettamente la versione inglese, ma nel remake americano lei ha preso molte precauzioni nei confronti del pubblico a proposito di questi cembali. Dopo i titoli di testa ha mostrato con molta evidenza un musicista con in mano i cembali, mentre una scritta in sovraimpressione dice press’a poco: "Un colpo di cembali può sconvolgere la vita di una famiglia
americana". Più tardi nel film le spie ascoltano la registrazione della cantata prima di andare al concerto e qui fa sentire due volte di seguito le battute che precedono il colpo di cembali; è molto preciso e molto insistente.
A.H. Il fine era di ottenere la completa partecipazione del pubblico. Ci sono probabilmente nel pubblico molti che non sanno cosa sono i cembali e, per questi, era bene mostrare contemporaneamente lo strumento e la parola "cembali", scritta a chiare lettere; poi bisognava che il pubblico fosse capace non solo di identificare il suono dei cembali, ma anche di immaginarlo in
anticipo, quindi di attenderlo. Questo condizionamento del pubblico é la base essenziale per la creazione del suspence. Le battute della cantata che sono ripetute due volte sul disco servono per evitare ogni confusione nella mente dello spettatore su quanto accadrà in seguito. Mi sono spesso reso conto che certe situazioni di suspence sono irrimediabilmente compromesse quando il pubblico non capisce chiaramente la situazione. Per esempio due attori hanno i vestiti quasi uguali e il pubblico non li distingue più; le ambientazioni sono confuse, la gente non riesce a capire bene dove si stia svolgendo l’azione e, mentre lo spettatore cerca dl riprendere il filo della narrazione, la scena va avanti e non provoca alcuna emozione. Bisogna costantemente chiarire.


F.T. Credo che non si tratti solo di chiarire, ma anche di tendere costantemente alla semplicità, di avere il senso della semplicità; a questo proposito mi domando se non ci siano due specie di artisti, i semplificatori e i complicatori. Allora si potrebbe dire che tra i complicatori ci sono grandissimi artisti, ottimi scrittori, ma che per avere successo nel campo dello spettacolo é meglio appartenere alla prima categoria. E d’accordo‘?
A.H. E' essenziale, perché bisogna provare in prima persona le emozioni che si vogliono suscitare nel pubblico. Per esempio, quei registi che non sanno essere semplici non riescono ad avere il controllo del tempo che é loro concesso, si agitano disordinatamente intorno a dei problemi astratti e le loro vaghe inquietudini impediscono loro di concentrarsi su preoccupazioni precise, come un cattivo oratore che perde la testa perché si sta ad ascoltare mentre parla e smarrisce il filo del discorso. Nella sceneggiatura di The Man Who Knew Too Much c’é una differenza importante tra le due versioni: nel film inglese il marito viene tenuto prigioniero e la protagonista rimane sola nell'Albert Hall fino alla fine del film.
F.T. E' migliore la seconda soluzione, perché l’arrivo di James Stewart mentre stanno eseguendo la cantata permette di dilatare il suspence; ritrova Doris Day, comunica a gesti con lei che gli fa capire la situazione, gli indica l'assassino, poi l’ambasciatore in pericolo; Stewart tenta di fare qualcosa; attraverso i corridoi cerca di raggiungere il palco dell’ambasciatore, ma deve fermarsi a discutere con dei poliziotti che non lo lasciano passare; anche qui solo attraverso la mimica, si capisce che i poliziotti lo mandano sempre da qualcuno di grado ogni volta più elevato, e tutto questo gioco mimico aumenta il suspence e nello stesso tempo costituisce l’ironia della scena. L’umorismo è qui molto più sottile che nella versione inglese e, a mio avviso, qualitativamente superiore, perché non interrompe il tono drammatico della sequenza, ma è perfettamente integrato ad essa.
A.H. Si, é vero; a parte questo, penso che la scena dell’Albert Hall sia molto simile nelle due versioni, non crede? E la stessa cantata...
F.T. ...suonata meglio la seconda volta dall’orchestra di Bernard Herrmann. Ho l’impressione che la scena sia più lunga nella seconda versione; in ogni caso è una bobina di trecento metri tutta di musica, senza dialogo, e ci sono quasi soltanto delle inquadrature fisse. Nella prima versione le inquadrature erano spesso mobili, c’erano diverse panoramiche, per esempio dalla testa dell’assassino a quella della donna, e da questa a quella dell'ambasciatore. Il remake è più rigoroso e più segmentato.
A.H. Diciamo che la prima versione e stata fatta da un dilettante di talento, mentre la seconda da un professionista. (...)
(pagine 71-79 da "Il cinema secondo Hitchcock", conversazione di Alfred Hitchcock con François Truffaut, ed. Pratiche 1987)

 
F.T. (...) Abbiamo già esaminato alcune differenze nel découpage tra le due scene all`Albert Hall, nella versione inglese del 1934 e nella versione americana del 1956. La seconda é molto più riuscita.
A.H. Sì, credo che abbiamo parlato della scena del concerto all'Albert Hall a proposito della prima versione. ma vorrei aggiungere che, perché una tale scena raggiunga la sua massima efficacia, l'ideale sarebbe che tutti gli spettatori siano in grado di leggere la musica.
F.T. Non mi sembra necessario...
A.H, Ho preso tante precauzioni con i cembali che non ho alcuna preoccupazione che si crei della confusione a questo proposito, ma quando la macchina da presa si sposta sulla partitura del suonatore di cembali, si ricorda?
F.T. ...sì. la carrellata laterale sul pentagramma...


A.H. ...durante questa carrellata. sul pentagramma, la macchina da presa percorre tutti quegli spazi vuoti e si avvicina alla sola nota che dovrà suonare l’uomo dei cembali. Il suspence sarebbe più forte se il pubblico potesse decifrare la partitura.
F.T. E' vero, sarebbe l'ideale. Nella prima versione non aveva fatto vedere la testa del suonatore di cembali ed é un errore a cui ha posto rimedio nella seconda versione. Non so se la scelta sia stata cosciente da parte sua, ma ha preso un uomo che le assomiglia un po'.
A.H. Non penso di averlo fatto intenzionalmente.
F.T. E' totalmente impassibile.
A.H. La sua impassibilità é essenziale, perché non sa di essere lo strumento della morte. Senza saperlo, é il vero assassino.
( Ricordiamo qui che la spia incaricala di uccidere l'ambasciatore durante un concerto all'Albert Hall ha il compito di tirare un colpo di pistola nel preciso momento in cui verrà dato l'unico colpo di cembali della partitura.)
pagine 194-195 (da "Il cinema secondo Hitchcock", conversazione di Alfred Hitchcock con François Truffaut, ed. Pratiche 1987)


Che sia la prima o la seconda versione, il mio parere è che questa trovata è un po' troppo arzigogolata, difficile che un semplice colpo di cembali (di piatti) possa davvero coprire un colpo di pistola. E' più facile che questo avvenga durante un pieno orchestrale, magari con il coro e le trombe in primo piano (penso al Requiem di Verdi, tanto per fare un esempio). Un pieno orchestrale dura più tempo rispetto ad un semplice colpo di cembali, ma ovviamente questo smonterebbe tutta la scena che aveva in mente Hitchcock, cioè far corrispondere nello stesso istante i due avvenimenti separati e independenti l'uno dall'altro. Chi è stato in teatro o in sala da concerto sa bene queste cose, è molto difficile fare un rumore nel tempo esatto di una singola nota (come dimostrano i colpi di tosse e i telefonini, che cascano sempre nelle brevi pause PRIMA di un momento importante, e mai in coincidenza con un pieno orchestrale...).
A questa obiezione ne aggiungo un'altra, che la musica non è molto interessante. Arthur Benjamin (1893-1960) era di nascita australiano, e dal 1926 diresse il Royal College of Music a Londra, ed è probabilmente qui che Hitchcock ebbe l'occasione di conoscerlo. Il merito maggiore di Arthur Benjamin è stato di aver avuto tra i suoi allievi Benjamin Britten; per il resto, le cronache dicono che ebbe un buon successo in vita, ma poi è stato quasi completamente dimenticato e lo si ricorda quasi soltanto per questo film. Il vero colpo di scena, nel film del 1956 (chi ha visto il film lo ricorderà di certo) è legato alla canzone "Que serà serà", cantata da Doris Day; a me piace molto la sequenza in cui James Stewart arriva alla Ambrose Chapell, davvero bizzarra e divertente come capitava sempre al miglior Hitchcock.
 

domenica 20 novembre 2016

In corso d'opera ( III )


 
3.
Sono stato un loggionista della Scala per tanti anni: costava meno che andare al cinema. Avevo vent’anni, facevo l’operaio, e andavo alla Scala: e mi piaceva molto che queste tre cose stessero insieme.
Io alla Scala ci sono andato (cosa che non avrei mai pensato di fare) perché alla Scala in quel periodo c’erano Paolo Grassi e Claudio Abbado, che fin dagli anni ’60, invitavano apertamente chiunque ne avesse voglia ad avvicinarsi alla grande musica, che non doveva più essere riservata ai ricchi signori in abito da sera e alle dame impellicciate. Addirittura, Claudio Abbado portava l’orchestra della Scala nei luoghi di lavoro e nelle piazze; e si facevano abbonamenti particolari per lavoratori e studenti: tutto questo alla Scala, in un periodo di grandissime voci e di grandissimi direttori. Sono stato fortunato, perché oggi non è più così, da molto tempo ormai l’opera lirica e la Scala sono tornati ad essere “roba da ricchi”, ma all’epoca (fine anni ’70 - primi anni ’80) mi sembrava scontato e normale che un ragazzo di vent’anni, non ricco, che faceva un mestiere umile, potesse aver voglia di andare all’Opera. Col tempo, mi sono accorto che non era affatto così scontato, e che c’era già chi lavorava per far cessare “questo scandalo”, e col tempo, a partire da metà anni ’80, quasi tutto il lavoro di Grassi, di Abbado, e di Giorgio Strehler è stato accuratamente cancellato.


Due date segnano questa mio ricordo personale: il 1983, con l’incendio del cinema Statuto a Torino che portò a drastiche misure di sicurezza ovunque, e che alla Scala portò alla riduzione degli ingressi in loggione (con conseguente incremento del bagarinaggio: ogni singolo posto diventava molto prezioso, anche quelli in piedi), e il 1986, anno in cui Claudio Abbado lasciò Milano per andare a dirigere le due orchestre più prestigiose del mondo: Wiener Philharmoniker e Berliner Philharmoniker, il posto che fu di Herbert von Karajan e Wilhelm Furtwängler. Da allora, le cose cominciarono a cambiare: sul piano puramente musicale Riccardo Muti fece un lavoro eccellente, ma su tutto il resto ci sarebbero molte cose da dire.


Soprattutto, è diventato sempre più difficile per un ragazzo come me, come ero io, interessarsi all’Opera e alla musica. Negli anni ’60 e ’70, la Rai aveva un palinsesto molto variato: si poteva vedere di tutto, dalla Coppa Campioni di basket fino al Rigoletto e alla Turandot: anche se in casa mia nessuno si interessava di musica, per me fu facile cominciare a farmene un’idea. Faccio il paragone con l’oggi: la tv è soltanto commerciale, da vent’anni ormai funziona così, non si trasmette ciò che è bello e interessante, ma solo quello che attira gli inserzionisti pubblicitari. La pubblicità è diventata l’unico metro di paragone: se piace ai pubblicitari, deve piacere anche a te, e per forza. Potrà sembrare un paradosso, ma con i duecento canali del digitale terrestre, con i mille canali del satellite, eccetera, va a finire che si trasmettono sempre e soltanto quelle due o tre cose: la pubblicità e il marketing cercano solo i luoghi comuni, ciò che è banale e risaputo, e ripetono all’infinito quelle tre o quattro cose, sempre quelle, magari piacevoli all’inizio ma che poi diventano come i cavallini di una giostra: dopo dieci minuti sai già quello che ti passa davanti. In rete, su internet, su youtube, all'apparenza c'è una grande libertà di scelta; all'atto pratico, ognuno si richiude nel cerchio più o meno ristretto delle "cose che mi piacciono", e lì finisce tutto, non si mette più fuori il naso e non ci si interessa ad altro. Spesso, è difficile avere perfino notizia dell'esistenza di Brahms o di Puccini; molto spesso, si pensa di "conoscere Beethoven" perché si sono ascoltate una volta o due quelle tre note famose all'inizio della Quinta. Il paradosso di internet è che ha reso la gente più ignorante di prima, e lo ha fatto fornendo una quantità di informazione mai così facilmente accessibile. In generale, regnano pigrizia e ignoranza, e soprattutto regna il conformismo. Guai a chi cerca di informarsi, di capire, di crescere, in questo mondo tra fine Novecento e inizio del Duemila...


Oggi guardo le cronache tv e trovo che la Scala (soprattutto la Scala) è tornata ad essere quello che è sempre stata nell’immaginario collettivo: un ritrovo di vecchie signore impellicciate e di giovani baldracche in abiti da sera costosissimi (mi scuso per il termine, ma i tempi sono questi e lo abbiamo purtroppo dovuto constatare infinite volte), che dell’opera non sanno nulla di nulla ma che ci vanno perché devono farsi vedere. A queste persone, alla Scala, Riccardo Muti riservava un trattamento particolare: lo ha fatto per quasi vent’anni di fila, in apertura di stagione, il 7 dicembre. Sono rimaste leggendarie, le aperture di stagione di Riccardo Muti alla Scala: niente Traviata o Aida, niente Bohème o Cavalleria rusticana, “volete venire alla Scala? mettetevi comodi e ascoltate la musica.” E la musica c’era sempre, di qualità eccelsa e in proporzioni tali da ripagare il costo del biglietto: Guglielmo Tell di Rossini (sei ore), Ifigenia in Aulide di Gluck (primo atto di un’ora e mezza, senza intervalli), Vespri Siciliani di Giuseppe Verdi (dodici ore e tre quarti, più i balletti scritti per Parigi e che di solito non vengono mai eseguiti), la Walkiria di Wagner (tre settimane e due giorni, sempre senza intervalli). Poi finiva che un vero appassionato di musica, come Francesco Saverio Borrelli, era entusiasta e coglieva le diversità e le somiglianze dell’Ifigenia in Aulide rispetto all’Ifigenia in Tauride, o magari commentava le due differenti versioni dell’Alceste, quella francese e quella italiana; le Santanché e le Ravetto non ci avevano capito un tubo e si erano annoiate a morte, ma avevano speso trentamila euro dalla parrucchiera e il loro vestito era tanto ma tanto bello.

 
Questo aspetto convenzionale dell’opera lirica, il teatro d’opera come luogo per ricchi signori annoiati (lontano anni luce dall’idea di Verdi e di Mozart e di tutti i veri appassionati), è ben presente nel cinema; mi limiterò quindi a portarne qui solo due esempi, che spero significativi.
Il primo è “Pretty woman”, famosissimo film, dove Julia Roberts viene portata all’opera dal riccone Richard Gere e si commuove tanto per “La Traviata” di Giuseppe Verdi; il secondo è “Match point” di Woody Allen, che mi ha ispirato qualche riflessione, più o meno dolce o amara. Woody Allen riempie il film di arie d’opera, e lo fa con grande intelligenza; ma anche lui associa il teatro d’opera a gente ricca e svogliata, e ovviamente l’opera si ascolta nel palco, e ovviamente chi sta nel palco ha lo yacht, gioca a golf, possiede gallerie d’arte, tenute di campagna, cani, cavalli, servitù, eccetera.
E’ lo stesso mondo descritto in “Pretty woman”, e da qui mi è venuta quella parola un po’ forte che ho scritto prima, e sulla quale vorrei tanto sorvolare ma non so se posso.
Al terreno del convenzionale appartengono, nonostante tutto, anche messe in scena ben fatte come quella di Francis F. Coppola nel “Padrino parte terza”, la Cavalleria rusticana di Mascagni, e molto altro ancora; mentre si merita un discorso a parte “L’uomo che pianse” di Sally Potter, tutto ambientato in teatro d’opera, tra i protagonisti un tenore antipaticissimo interpretato da John Turturro: in questo film le scene d’opera sono veramente belle, e anche molto ben scelte.
In questo contesto metterei anche Alfred Hitchcock, L’uomo che sapeva troppo, dove non c’è l’opera lirica ma c’è il teatro, un film in cui ho sempre trovato veramente brutta la scena dei timpani (anche perché la musica è davvero poca cosa).


Ma forse la rappresentazione migliore di questo genere di cose è in Citizen Kane (Quarto potere ) di Orson Welles: il ricchissimo e potentissimo Kane sposa una cantante di musical, le costruisce apposta un teatro d’opera e la fa debuttare come solista, ma con l’Opera (così come con il football) non si può scherzare né barare: o sei capace o vai a casa. la donna è imbarazzatissima, vorrebbe sottrarsi ma non può; maestri di canto e musicisti sono stati pagati bene ma appaiono davvero disperati; l’opera va in scena lo stesso, ma l’esito è quel che è.
Invece in tv barare si può, eccome, e anche al cinema è possibile, e in parte anche nel teatro di prosa o nei libri. In tv e al cinema capita spesso (è capitato, capita, e capiterà ancora) che i più bravi si debbano tirare da parte per fare spazio alle Ambre Angiolini e alle Marie de Filippi di turno, che vanno avanti per forza anche se nessuno capisce bene perché (e guai a dirlo, che si offendono).


le immagini si riferiscono ai miei anni alla Scala (da spettatore e ascoltatore, sia ben chiaro): in primo luogo Claudio Abbado, poi il Boris Godunov della stagione 1979-80 diretto da Abbado con regia di Jurij Ljubimov (a questo spettacolo sono molto affezionato), Carlos Kleiber (dalla TSI, Televisione Svizzera Italiana), l'Alceste di Gluck diretto da Riccardo Muti (foto da un quotidiano del 1986), Wolfgang Sawallisch (un direttore magnifico, in teatro; gli devo moltissimo), e infine la Scala come era prima di essere deturpata dall'architetto Botta (che avrebbe ben potuto "star sotto" e invece ha voluto che si vedesse bene il suo lavoro in piazza, come se fosse uno dei tanti writer che mettono la tag; con la differenza che una tag si può cancellare, il cemento armato no).
per i distratti: le foto sono in bianco e nero perché le ho prese dai programmi di sala, o dalla tv svizzera italiana, o da giornali. Il colore esisteva già dai tempi dell'autochrome, fine 800.
(continua)

sabato 19 novembre 2016

Charley Countryman (2013)


 
The necessary death of Charley Countryman ("Charlie Countryman deve morire", 2013). Regia di Fredrik Bond. Scritto da Matt Drake. Fotografia di Roman Vasyanov. Interpreti: Shia Labeouf, Evan Rachel Wood, Mads Mikkelsen, Ion Caramitaru, Til Schweiger, Melissa Leo, Vincent D'Onofrio, Rupert Grint, e altri. Durata: 1h40' circa

Un film curioso e confuso, un po' sul tipo di "Fuori orario" di Scorsese o di "Tutto in una notte", queste cose qui. La madre del protagonista (Charlie Countryman è un nome e cognome) muore in ospedale, a Chicago (eutanasia) e poi appare brevemente al figlio dicendogli di andare a Bucarest. Seguono avventure da principio interessanti, poi sempre più sul banale e sanguinolento, il classico film che inizia bene e poi continua così così, fino ad un finale positivo ma altamente improbabile, vista la quantità e la qualità delle botte che si è preso il protagonista. Il tono complessivo è da commedia, spesso adolescenziale nelle battute e nelle situazioni, con contorno di droghe e farmaci più o meno legali; ed è un peccato perché se scritto con un po' più di attenzione poteva essere un bel film. Evan Rachel Wood interpreta una giovane violoncellista rumena, Mads Mikkelsen è un cattivissimo killer. La presenza della violoncellista permette un'intrusione nel teatro dell'Opera di Budapest, le prove e un breve momento di un allestimento operistico.


Al minuto 30, all'Opera di Bucarest, vediamo insieme al protagonista due minuti da "Un ballo in maschera" di Giuseppe Verdi: la morte di Riccardo (sempre un momento di grande effetto, ben scelto), in un curioso allestimento dove Renato spara un colpo di pistola per uccidere l'amico. Purtroppo non sono indicati gli interpreti dell'opera; non solo, nei titoli di coda sono indicati autori ed esecutori di ogni brano ma manca completamente il nome di Giuseppe Verdi. Un brutto vizio, che io ricambio (per quel che posso, nel mio piccolo) omettendo il nome dell'autore delle musiche scritte per il film. Una riga per Vincent D'Onofrio, qui presente in una piccola parte: per gli appassionati di cinema, è il soldato Pyle di Stanley Kubrick (Full metal jacket), ma se pensate di trovarlo ancora sovrappeso e fuori di testa non lo riconoscerete mai, è il gestore dell'ostello dove va a dormire il protagonista del film.


PS: c'è un sito ufficiale per questo film, ma mancano completamente le immagini relative a "Un ballo in maschera"; per avere queste immagini mi sono dovuto un po' arrangiare. Non sono perfette, e me ne scuso, ma penso che serviranno per rendere l'idea. In fin dei conti, si tratta di poco più di un minuto.
 

 

giovedì 17 novembre 2016

Citizen Kane


 
Citizen Kane (Quarto potere, 1941) Regia di Orson Welles. Sceneggiatura di Herman J. Mankiewicz e Orson Welles. Fotografia di Gregg Toland. Musica di Bernard Herrman e di Ernest Reyer. Interpreti: Orson Welles, Joseph Cotten, Dorothy Comingore, Everett Sloane, e molti altri. Durata: 119 minuti.

"Citizen Kane" è uno dei film più famosi e celebrati di tutta la storia del cinema, ancora oggi fondamentale; Orson Welles lo gira nel 1941, venticinquenne, all'apice della notorietà per via di un adattamento radiofonico della "Guerra dei mondi" del suo quasi omonimo Herbert George Wells, tre anni prima, che fece scalpore perché molti ascoltatori lo presero per una vera radiocronaca dello sbarco dei marziani sulla Terra. La cosa può far sorridere, ma chi conosce le capacità della voce di Orson Welles non ha difficoltà a credere in quella suggestione. Uno come Orson Welles può rendere credibile qualsiasi cosa.

"Citizen Kane" contiene una scena d'opera, che forse ha bisogno di qualche spiegazione. Il film è basato sulla vita privata e pubblica di William Randolph Hearst, potentissimo uomo d'affari americano, molto influente anche sul cinema. Hearst ebbene una lunga relazione con una giovane attrice, Marion Davies; Orson Welles cambia i dettagli della loro relazione, facendo di Marion Davies una cantante d'opera e cambiandole nome in Susan Alexander (l'attrice che la interpreta si chiama Dorothy Comingore). Nel film, Susan Alexander non ha una grande vocazione come cantante; ma Kane (cioè Hearst nella riconoscibilissima trasposizione di Orson Welles) (riconoscibilissima per gli americani di allora) insiste, è innamorato e vuole dare qualsiasi cosa alla sua donna. Le compra un teatro d'opera, e la fa esibire come una vera star. Le immagini che ho portato qui sono tratte dalla scena madre dell'episodio: Susan Alexander canta, e il pubblico tace imbarazzato. La cosa peggiore che possa succedere in teatro, peggio ancora dei buu e dei fischi. Il commento dei due macchinisti durante l'esecuzione dell'aria è silenzioso ma eloquente.
La giovane non è stupida e sa benissimo cosa succede:
- Forse ora capirai quello che provo... non me la sento più di seguitare a cantare, non sai cosa significhi presentarsi in scena e sentire che il pubblico non ti vuole...
- Quando si lotta è sempre così. Va bene, non affronterai più il pubblico: peggio per lui.

 
Provo a riassumere le differenza tra la realtà e il film di Welles: Susan Alexander, interpretata da Dorothy Comingore, ha un corrispettivo in Marion Davies, attrice di cinema e non cantante; Hearst aveva 34 anni più di lei e la notò tra le danzatrici delle Ziegfeld Follies; ebbero una lunga relazione. Fondò per lei una compagnia cinematografica (Cosmopolitan) e la fece debuttare sul grande schermo nel 1918. Marion Davies ebbe poi una buona carriera come attrice, il suo vertice è probabilmente nella collaborazione con King Vidor (1925-28) però con la MGM e non più con la Cosmopolitan di Hearst. Marion Davies lavorò molto nel cinema come attrice anche con l'avvento del sonoro, fino al 1937, e rimase con Hearst fino alla morte di lui nel 1951. A Marion Davies è collegato uno dei grandi misteri di Hollywood, la morte del regista Thomas Ince nel 1924; la verità non fu mai accertata, ma pare che il colpo di pistola che lo uccise fosse un errore, il colpo era destinato a Charlie Chaplin che stava corteggiando la protetta di Hearst. E' comunque da ricordare il fatto che lo stesso Charlie Chaplin, nella sua autobiografia, smonta completamente questa storia: dice di aver fatto visita in ospedale a Ince, colpito da infarto, e racconta per molte pagine la sua amicizia sia con W.R. Hearst che con Marion Davies. Dato che l'autobiografia esce più di trent'anni dopo il fatto, mi sembra il caso di dar credito a Chaplin.

 
L'aria cantata da Susan Alexander nel film è tratta da "Salammbô", che da alcune fonti è presentata come opera di Bernard Hermann, autore delle musiche del film, e da altri come adattamento della "Salammbô "di Reyer, arrangiata dallo stesso Hermann. La voce che ascoltiamo è di Jean Forward, l'attrice è Dorothy Comingore.
"Salammbô" è un dramma di Gustave Flaubert del 1862, ambientato a Cartagine durante le guerre puniche, considerato uno dei suoi capolavori. La protagonista è una sacerdotessa della Luna, figlia di Amilcare.
Ernest Reyer (nativo di Marsiglia, 1823-1909) scrisse un'opera tratta dalla Salammbô di Flaubert, che ebbe la prima rappresentazione nel 1890 e che proseguì con notevole successo fino ai primi anni del Novecento, per poi venir dimenticata. Reyer all'epoca era considerato un wagneriano, in realtà il suo punto di riferimento era Berlioz; ma nella seconda metà dell'Ottocento veniva considerato più o meno "wagneriano" ogni compositore che utilizzava in modo sinfonico la grande orchestra (perfino Giuseppe Verdi per l'Otello del 1887 venne accusato di essere "wagneriano"...)
Una Salammbô è stata scritta anche da Mussorgskij, è incompiuta ma viene comunemente eseguita in sede di concerto.


Su youtube si possono trovare diverse esecuzioni della partitura così come è stata scritta da Bernard Hermann; è interessante soprattutto quella con la voce di Eileen Farrell (1943, due anni soltanto dopo il film) perché la direzione dell'orchestra è affidata allo stesso Bernard Hermann. Si può trovare anche la versione della grande cantante neozelandese Kiri Te Kanawa (1994, Royal Albert Hall), e poi buone esecuzioni di Venera Gimadieva e Rosamund Illing; molto in difficoltà appare, come Susan Alexander verrebbe da dire, la cantante Teresa Foss (accompagnata dal pianoforte, e non dall'orchestra come tutte le altre su youtube).


In "Citizen Kane" si ascoltano anche l'aria di Rosina dal Barbiere di Siviglia di Rossini, sempre Jean Forward che doppia Dorothy Comingore, arrangiamento di Nathaniel Shilkret, il coro dei pellegrini dal Tannhäuser di Richard Wagner, la Trauermarsch op.62 n.3 di Mendelssohn (poi ripresa da Gustav Mahler) arr. di Max Steiner, e di Chopin dall'op.35 la famosissima marcia funebre (arr. Roy Webb)

 
- ...è risaputo che avevi il più spettacolare contratto che Hollywood aveva mai stipulato...
- Non sotto il profilo finanziario, ma in termini di autorità e di diritti. Sotto il profilo finanziario non era nulla di straordinario, era straordinario per il controllo che mi accordava sui miei materiali.
- Avevi il controllo totale?
- Il controllo totale per quel che riguarda i giornalieri, che sono (forse dovrei spiegarlo) le parti del film che vengono mostrate alla fine della giornata di lavoro, e che sono sempre controllate dai vari responsabili dello studio, i capi reparto, i produttori, i distributori e tutti gli altri, molto tempo prima che esista un montaggio provvisorio. Ma secondo i termini del mio contratto i giornalieri non potevano essere visionati da nessuno, e di fatto il film non poteva essere visto prima che fosse pronto per la distribuzione.
- Tranne che da te...
- Sì, e dalla mia "famiglia"; perché in effetti eravamo una famiglia, un piccolo gruppo molto ristretto.


- Dal momento che in tutta la tua vita non avevi fatto nessun film prima di Citizen Kane, e per quanto ne so non avevi neppure messo piede in uno studio cinematografico prima di Citizen Kane...
- E' vero.
- ...a prescindere dal modo in cui ti sei accaparrato quel contratto, che è stato il risultato della tua enorme notorietà all'epoca e dei tuoi molti talenti, quel che mi piacerebbe sapere è come hai fatto...
- No, sul serio, ti devo interrompere, ho avuto quel contratto così buono perché non avevo davvero l'intenzione di fare un film.
- Beh, questa spiegacela meglio...
- Devi sapere che se non hai nessuna intenzione di andare a Hollywood, o almeno così accadeva ai vecchi tempi, ai tempi d'oro di Hollywood, se davvero non hai la minima intenzione di andarci, le condizioni che ti vengono offerte diventano di volta in volta migliori. Nel mio caso non volevo denaro, volevo autorità, così ho chiesto l'impossibile sperando di essere lasciato in pace; e alla fine di un anno di trattative ce l'ho fatta, semplicemente perché non avevo la minima vocazione in quel senso, il mio amore per il film è nato solo quando abbiamo iniziato a lavorare.
- Quel che vorrei sapere è: dove hai trovato la fiducia in te stesso per riuscire a...
- Ignoranza, ignoranza pura e semplice. Vedi, non c'è sicurezza di sè che possa eguagliarla. E' soltanto quando si conosce una professione, credo, che si diventa insicuri o guardinghi. (...)
(Orson Welles, intervista del 1964 a Cahiers du Cinéma, pag.135 dal volume "It's alla true", editore Minimum Fax 2005)